Come scegliere lo zaino giusto per il viaggio?

backpacks-1888879_1920Se e’ la prima volta che vi approciate a una vacanza zaino in spalle, questa domanda vi sembrera’ di una difficolta’ estrema. Almeno per me la prima volta e’ stato cosi’: meglio un po’ piu’ grande che almeno ci metto piu’ cose? No, forse meglio piu’ piccolo cosi’ mi costringo a portare meno. Ma devo veramente spendere cosi’ tanto per uno zaino? E quelli che ci sono a basso costo faranno veramente cosi’ schifo?

Non so se ci siamo capiti, ma queste erano solo una parte delle domande che per i mesi pre partenza mi hanno frullato e sconquassato la testa.

Dunque, non preoccupatevi, habemus risposte!

Sbagliando si impara, ed e’ stato proprio provando diversi zaini che sono arrivata a capire prima di tutto le vitali differenze che ci sono tra i diversi modelli. Partiamo pero’ da un presupposto: questi suggerimenti nascono per chi pensa di intraprendere una vacanza zaino in spalla, dove si presume che ci siano delle condizioni di vitto e alloggio pre-esistenti. Le caratteristiche che stiamo per vedere non contemplano la necessita’ di doversi portare a spalle anche la tenda e i vivere ( in quel caso siamo su zaini da 80 + 10 L, quelli degli scout per intenderci!)

REGOLE DI BASE

Prima di passare alle caratteristiche tecniche che un buon backpack dovrebbe avere, ci sono dei principi base grazie ai quali potrete comunque restringere la scelta tra le centinaia di opzioni disponibili.

Meno e’ meglio

Questo è il principio fondamentale su cui basare la scelta del backpack meno è meglio! Quindi più piccolo sarà lo zaino, meno sarete invogliati a portare con voi cose inutili. Non c’è molta differenza nel preparare uno zaino per un viaggio di un mese da quello di un anno. Sapete perché? Perché i vestiti si possono lavare, buttare, ricomprare e anche scambiare, esattamente come fareste a casa!

Mai risparmiare troppo

Potete risparmiare sui voli, alloggi, noleggio dell’auto ma non troppo sullo zaino. Anche se non è necessario acquistare il più costoso in commercio, la qualità del materiale è davvero importante, dato che dovrete portarlo sulle spalle per molto tempo. Quindi puntare su marche specializzate in viaggi o escursioni potrebbe essere un ottimo investimento. I più diffusi e conosciuti sono Osprey, DeuterFerrino, Salewa, alcuni modelli Quechua di Decathlon sono ottimi e Rei, un brand americano che consegna anche in Europa.

Assicurarsi delle proprie proporzioni

Lo zaino dovrebbe tenere in conto prima della quantità di cose che deve contenere, del vostro peso, altezza e proporzioni. Quindi ad esempio se siete alti 1.68 cm come me, uno zaino da più di 55L può rivelarsi davvero una condanna. Per viaggi a lungo termine non dovrebbero superarsi i 55L per le donne e i 60L per gli uomini in totale, contando quindi sia il corpo dello zaino che l’eventuale zainetto per la macchina fotografica o per altri accessori. Credeteci, saranno più che sufficienti.

Le caratteristiche di uno zaino di qualita’

  1. Cerniere con lucchetto. Alcuni zaini specialmente quelli a “pozzetto”, non possiedono cerniere che possono essere chiuse con dei lucchetti. Il che va bene se andate a fare un’escursione di qualche giorno, ma è del tutto sconsigliato per motivi di sicurezza se viaggiate zaino in spalla per molto tempo, soprattutto se dormite nei dormitori e negli ostelli. Uno zaino è sicuro solo se tutti gli scompartimenti o quasi possono essere chiusi a chiave.
  2. Multi tasche interne. ll vostro zaino conterrà una miriade di cose differenti. Avere alcuni scompartimenti interni per tenere separati documenti, cavi, o vestiti sporchi è davvero indispensabile e vi aiuterà anche a trovare le cose facilmente.
  3. Waterproof. E’ importante che lo zaino sia resistente all’acqua per evitare in caso di pioggia di trovarsi tutti i vestiti bagnati. Molti backpack sono anche dotati di borsa impermeabile per ricoprirli, in alternativa potete acquistarla separatamente.
  4. Sostegno rigido per la schiena (scheletro di metallo). Negli anni ’70 questo sostegno era esterno (come quello che vedete nella foto sopra). Oggi però la maggior parte dei backpack di una certa qualità ce l’hanno invisibile interno. Aiuta a distribuire uniformemente il peso sulla schiena e a mantenere una postura corretta.
  5. Cintura per supporto lombare e spalline regolabili. Idem come sopra la cintura serve a caricare il peso su fianchi e ad alleggerire il lavoro di spalle e cervicale. Alcuni zaini sono dotati anche di tasche interne comode per inserire oggetti che avete bisogno di avere spesso a portata di mano. Le spalline aiutano ad adattare lo zaino alla vostra altezza soprattutto nel caso di modelli unisex.
  6. Cinghie di compressione. Le cinghie aiutano a comprimere il contenuto e diminuire le dimensioni per farlo entrare magari nelle misure del bagaglio a mano o semplicemente farlo chiudere. Quello che abbiamo scelto noi (leggete sotto) ha sia quelle interne che esterne.

Il mio zaino da viaggio

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Rullo di tamburi… io ho optato per questo modello (nella versione femminile) che ho scoperto essere poi la scelte di altre 4 ragazze con cui ho condiviso il pulmino da Bangkok ad Ayutthaya! Mi sono trovata trovata bene e l’ho utilizza in piu’ situazioni: direi leggero quanto basta, molto ben strutturato, economico ma non troppo e spendibile in diversi contesti.

Fammi sapere che cosa hai invece scelto tu, sei hai dubbi o domande 🙂

 

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Baia di HaLong

Palme tutto intorno, e statue di delfini. Sembra di essere in California!

Ci avviciniamo al molo per gli imbarchi, scarichiamo le valigie, ed entriamo nella sala apparecchiata per il pranzo della nave che ci porterà in crociera sulla Baia di HaLong per due giorni. Sulla barca con noi, un’enorme comitiva di malesiani, un gruppetto multietnico di ragazzi giovani, dei tedeschi che abbiamo già incontrato in Laos. Dopo le indicazioni per l’assegnazione delle cabine e per la prossima escursione, il personale di bordo si dà da fare per servire il pranzo a molte persone in uno spazio parecchio ristretto. Esco per scattare qualche fotografia alla città in lontananza: un’alternanza di edifici bassi e grattacieli, dietro alla foschia. Siamo fortunati: la giornata è splendida, il sole spacca le pietre, mentre di solito qui regna la nebbia. Anche se credo che non mi sarebbe dispiaciuto vedere la baia ammantata da bianco mistero.

Cominciamo ad allontanarci dal porto, e subito ci ritroviamo circondati da centinaia di faraglioni di ogni forma e dimensione: il panorama è davvero suggestivo e molto molto rilassante. La stagione non è alta, perciò le barche in mare non sono moltissime. Dopo il pranzo passiamo per la cabina: la nostra ha il balcone! Devo cambiarmi per l’escursione, ma giuro che rimarrei su questa brandina al sole a godermi il vento tra i capelli, il silenzio e la pace dei sensi che questa vista mi trasmette. I faraglioni, o piccole isole, che sorgono dalle azzurrissime acque del mare, sono color della roccia. Sulla maggior parte di essi, è cresciuta della vegetazione bassa e irregolare: sembrano tante testoline piene di ricci!

Scendiamo dalla nave per salire su un’imbarcazione più piccola, che ci porta su una piattaforma. Qui c’è un allevamento di ostriche per le perle. Mentre gli altri ascoltano con attenzione la guida che racconta il processo di produzione di una perla, noi facciamo un giro veloce e saltiamo sul primo kayak a disposizione! Io e mio marito bisticciamo per trovare la coordinazione delle due pagaie. Alla fine, con calma e pazienza, troviamo il giusto ritmo che ci porterà all’ombra del faraglione più vicino. Il sole, non più tanto alto, riflette i suoi raggi caldi sull’acqua; le impercettibili onde mi cullano; le barche azzurre e arancioni in lontananza, di quelle che finora avevo visto solo nelle foto della Thailandia su Instagram, mi regalano la sensazione di essere entrata in un mondo che prima avevo solo immaginato. Mi rilasso e respiro a pieni polmoni il profumo del mare. Ogni tanto un altro kayak ci taglia la strada in velocità, e mi fa tornare alla realtà.

Quando risaliamo sulla piattaforma, mi imbatto in una macchia coloratissima di canoe arcobaleno. Sullo sfondo, le piccole isole: quelle davanti sono più nitide e chiare, quelle dietro sembrano più piccole, e man mano che si allontanano, sempre più scure e appannate dalla foschia marina.

La seconda escursione prevede la visita all’isola di Ti Toc, un ufficiale russo a cui questo posto è stato dedicato. Una dozzina di minuti e qualche centinaia di scalini dopo, siamo sulla cima dell’isola ad ammirare increduli il tramonto sull’intera baia. Rimarrei qui per sempre. Ed effettivamente, aspettiamo che la gran parte delle persone comincino a scendere, fino a goderci quel paradiso quasi da soli, mio marito e io. Aspettiamo fino a che la palla rossa, in pochissimi secondi, scompare completamente, fagocitata dall’orizzonte.

Torniamo sulla nostra nave per la sera, ma in realtà la giornata non è ancora giunta al termine. Prima di gustare un romantico aperitivo al buio sul ponte della barca, gli ospiti sono invitati al corso di cucina a cielo aperto. Stasera: involtini primavera! Immortalo mio marito nelle vesti di chef orientale, e lo porto con me a sorseggiare un dolcissimo mojito mentre guardiamo il mare di notte.

Dopo cena, voglio andare a godermi il nostro balcone, così mi armo di libro e mi metto comoda sul lettino all’aperto. Il senso di tranquillità che provo in questo momento, e il vocìo degli altri passeggeri al piano superiore, mi conciliano il sonno tanto da farmi addormentare lì, sotto le stelle, in mezzo al mare, lontano dalla vita reale.

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Il giorno successivo si apre con un’altra uscita: stavolta andremo a vedere la grotta Hang Sung Sot. Umidità e suolo scivoloso fanno da padroni, ma è un fastidio ampiamente ripagato dal paesaggio che ci troviamo davanti. Un paesaggio lunare, quasi fantascientifico. Cupole, cave, corridoi, là dove stalattiti e stalagmiti si incontrano. Il calcare in alcuni punti ha formato delle grezze sculture nella roccia, che ricordano ora un leone, ora un elefante, ora un cuore, o due persone che si baciano. A ogni passo, a ogni spazio che attraverso, devo trattenere, per non sembrare pazza tra la gente, un’esclamazione di stupore e meraviglia. Il nome del luogo in italiano è “grotta della sorpresa”, e, con vera sorpresa, ha superato ogni mia aspettativa.

La baia di HaLong era una delle immagini che mi aveva portato a scegliere il Vietnam come meta per questo viaggio, ed effettivamente, tra panorami mozzafiato e sensazioni tra le più positive, questo posto mi ha fatta sentire perfettamente in pace con la natura e con me stessa. Insomma, Baia di HaLong promossa a pieni voti!

 

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Laos – Luang Prabang

Ecco, su Luang Prabang potrei scrivere un libro…o forse no. Forse farò fatica a trovare le parole, invece…

Per cominciare, l’albergo: un piccolo villaggio di bungalow su due piani, arredati in maniera spartana e incantevole, con un cortile pieno di alberi di frangipane (quel fiore tropicale bianco con l’interno giallo, che finché non lo vedi dal vivo pensi che esista solo nei cartoni animati) e altri strambi esemplari di flora locale. Nel mezzo, uno stagno su cui poggiano soavi, a decine, foglie e fiori di loto, che si aprono la mattina e si chiudono la sera: un vero spettacolo della natura!

Inizia la visita: la nostra nuova guida, una donna di quasi quarant’anni a cui ne avrei dati dieci di meno, ci accompagna in una passeggiata a piedi per la città. Quello che preferisco! Di solito cammino con il naso all’insù per non lasciarmi scappare nemmeno un particolare; per fortuna c’è mio marito: spesso, se non inciampo o non calpesto cose, è grazie a lui, che d’istinto mi spinge come se mi stesse salvando da un pericolosissimo missile in corsa sulla traiettoria del mio naso.

Le strade sono silenziose e quasi deserte; lo stile delle abitazioni che ci circondano lascia trasparire la semplicità delle persone che ci vivono, e per me è amore a prima vista!

Questo Paese ha dei colori spettacolari: dal marroncino del Mekong, il fiume che fa da confine naturale tra Laos e Thailandia; ai tuk tuk arcobaleno che, con i loro sonnolenti autisti, affollano le strade; all’arancio degli abiti dei monaci; al fucsia della buccia del dragon fruit (se non l’avete mai assaggiato, fatelo! E’ inebriante); ai mille colori degli abiti di seta indossati dalle donne laotiane; ai rosso e oro dei templi, che non mancano mai.

Costeggiamo il fiume, e passiamo davanti a dipinti orientali appesi a un filo tra un albero e l’altro, a delicatissimi boutique hotel dai nomi più disparati, a minuscoli baracchini che, nonostante sia primo pomeriggio e nonostante ci sia veramente pochissima gente in giro, grigliano carne e altra roba indecifrabile su uno spiedo.

Il primo tempio che visitiamo è il Vat Xieng Thong: davanti a noi, un edificio dalle pareti color del mattone, ornate da un bellissimo mosaico che raffigura un grande albero, con attorno minuscole scene di vita quotidiana, sempre in mosaico.

In Indocina, un tempio non è mai solo un tempio: è anche tutto ciò che gli sta attorno. Il cortile, piccoli stupa, l’abitazione dei monaci, un trono, all’esterno, su cui siede comodamente almeno un Buddha al riparo di una doratissima e preziosa tettoia, la biblioteca, e altri edifici, tutti finemente decorati.

Mentre camminiamo, la nostra attenzione è attirata da un suono: manca un’ora alla preghiera, perciò i monaci devono riunirsi per pulire i templi e le strade, e farsi la doccia (all’aperto, di fianco ai loro appartamenti), pronti per la preghiera del pomeriggio.

La passeggiata continua: siamo nel quartiere francese. Elegante, ordinato, sofisticato. Le botteghe che si susseguono sulla strada sono in pieno stile parigino, e la scuola che vi si trova è bilingue. Proprio così: i bambini, oltre alla lingua laotiana, studiano il francese, e a me sembra un mondo magico. Il Laos, come il resto dell’Indocina, è stato, in passato, sotto il dominio francese per un centinaio di anni, e per Luang Prabang è stata una benedizione: riqualificazione del territorio e avanzamento tecnologico sono solo alcune delle migliorie che hanno permesso a questa città di diventare quella che è oggi.

Ci fermiamo a visitare un altro tempio, e qui la nostra guida interpella il capo dei monaci: la richiesta è di prendere per la sua famiglia i frutti maturi da un albero nel cortile. Quando il capo monaco arriva (prima di presentarsi, copre la spalla con la veste arancione) mi sembra di entrare in un’altra dimensione: finora ho visto solo monaci bambini e ragazzini, mentre lui è adulto, porta un paio di occhiali da vista, e una cicatrice sul petto. E il peso di tutta la sua esperienza sulle spalle. La testa gli fa male, e ci racconta che la cicatrice se l’è guadagnata con un’operazione delicata. Gli chiedo di poterlo fotografare, e, mettendosi in posa con orgoglio, schiena dritta e petto in fuori, stringe gli occhi in un sorriso, dolce e al tempo stesso amaro, carico di sofferenza.

Aiutati dai monaci bambini, riempiamo un sacchetto di quei frutti. La guida ci racconta che in Laos, se non lavori per lo Stato, la pensione non ce l’hai, e allora quando i genitori smettono di lavorare, sono i figli che si prendono cura di loro. Ecco quello che stava facendo lei: stava provvedendo alla tavola dei suoi cari. E poi ci racconta che la lunghezza dei capelli delle donne (seppure siano sempre raccolti) dipende dal loro stato civile: se sei nubile i capelli vanno portati lunghi, se sei sposata i capelli si accorciano alle spalle.

Una cosa che si nota subito a Luang Prabang è che, nonostante il caldo infernale, le donne portano tutte una longuette di seta, tinta unita, con una fascia in fondo ricamata con filo dorato, e indossata con un sistema di sovrapposizione sul fianco, e una camicetta con maniche a tre quarti, di seta, con i bottoni tondi. Sono bellissime, sobrie, ed eleganti. E sono tutto questo con una disinvoltura da fare invidia.

Ora saliamo sul Phu Si, la collina sacra che domina il paesaggio di Luang Prabang: centinaia di scalini di mattone, con corrimano a forma di coda di serpente. A metà, una piazzola. Ci fermiamo: spruzziamo l’antizanzare, facciamo qualche fotografia, sbirciamo una piccola nicchia dentro cui sta un Buddha, a cui è stato portato in offerta del riso. Qui ogni angolo è un Buddha! Più saliamo, più si avvicina il brusio: in cima alla collina ci sono altre persone, altre statue, di Buddha e dei suoi discepoli, un baracchino che vende offerte e bevande, e passerotti da liberare, il Vat Chom Si, e, finalmente, la terrazza più alta. Luang Prabang dall’alto è una meraviglia: tutto è rosso e verde, con il Mekong che taglia il paesaggio.

Scendendo, mi fermo da un ragazzo che mi prepara una centrifuga con dragon fruit cocco fresco e banana, sbucciati e tagliati al momento. Il cocco qui non si mangia quando è secco e marrone, con la polpa bianca e spessa; si mangia fresco, quando è ancora verde: si taglia a un’estremità, si beve il succo, e poi si apre un po’ più a fondo, recuperando un pezzo della buccia rigida a fare da cucchiaio, per raschiare da dentro la polpa, sottilissima, dolce, si scioglie in bocca.

Bevo il mio succo mentre ci addentriamo nel mercato notturno: un tripudio di colori fatto di seta carta e bambù, i materiali più diffusi qui. Le donne sistemano la merce su un telo sull’asfalto, e si siedono per terra a chiacchierare; le ragazzine sorridono guardando un cellulare; i bambini più grandi fanno i compiti, i più piccoli sbadigliano.

Qui tutti sono rispettosi del silenzio e della pace che regnano, persino al mercato. Persino chi espone le bancarelle: nessuno parla ad alta voce, e se ti avvicini a osservare la merce, ti sorridono, e al massimo te la mostrano più da vicino.

Ci addentriamo nelle traverse, più strette e più affollate: qui c’è lo street food. Sui banchetti, pezzi di carne e pesce essiccati al sole, involtini primavera, salsicce così scure da sembrare nere, carne di bufalo e pesce del Mekong, porzioni di riso avvolte nelle foglie di banana come fossero pacchetti regalo, brodo d’anatra (ho visto con i miei occhi le anatre spennate nel pentolone), e un odore di citronella che ti entra nel cervello.

La giornata volge al termine, e, mentre rincasiamo in albergo, la nostra guida si ferma a un banchetto ambulante di una signora che ci viene incontro. E’ una cariola, in realtà, che contiene del riso piccante: la signora, con movimenti veloci e sicuri, come se li ripetesse migliaia di volte al giorno da anni, in una mano si aggiusta una foglia di banana, e con l’altra la riempie della pietanza; poi chiude la foglia con una disinvoltura da lasciare a bocca aperta.

Scopriamo che la guida e la venditrice ambulante si conoscono, sono amiche. Ma qui non è sempre così: le persone per la strada si rivolgono la parola, si scambiano sorrisi, anche senza conoscersi. E’ questo il mio mondo ideale, dove tutti sono gentili con tutti, nessuno ha fretta, e i sorrisi si sprecano. Impariamo il saluto, sabaidee, che loro non pronunciano mai senza un inchino, e a ringraziare, khop jai, o khop jai lai lai, grazie mille. Le dico, queste parole, le dico molte volte, ogni volta che parlo con qualcuno del posto, e non mi vergogno, e le accompagno sempre con un sorriso. Quanti sorrisi ho visto in Laos!

La guida ci suggerisce di uscire sulla via principale il giorno dopo, alle 5:30 del mattino, se vogliamo assistere alla questua dei monaci. Siamo in vacanza, abbiamo fatto un viaggio lunghissimo, ci sono 5 ore avanti rispetto all’Italia, ma io alle 5:45 sono in strada, e vivo un’esperienza mistica, di un significato che sento essere profondissimo. Moltissimi monaci, uno dietro l’altro, a gruppi, camminano veloci passando davanti alle persone che riempiono di offerte i secchielli di bambù che portano a spalla. Arrivano da destra. E da sinistra. Un gruppo di cinque o sei, si incrociano con un altro gruppo di…saranno una quindicina! Altri sono più in là, altri ci vengono incontro. Loro colorano di arancione le strade che fino a poco fa erano avvolte nel grigio della penombra.

In un mondo d’altri tempi, dove la disciplina è severa, ma non è percepita come troppo dura; dove le tradizioni sono ancora ben ancorate nel cuore della gente; dove il rispetto per la religione è maniacale, i monaci vivono delle sole offerte dei fedeli. Questo insegna loro a saper apprezzare ciò che hanno, ad accontentarsi e a non desiderare di più. Pregano molto e mangiano poco.

Gli uomini hanno l’obbligo di fare i monaci per almeno un breve periodo. Un paio di settimane, qualche mese, o tutta la vita. A quale età non conta.

Ci accorgiamo che qui la vita inizia alle 6 del mattino: le luci sono accese, le saracinesche si alzano, il traffico in strada si intensifica, il cibo è già sulla griglia.

La giornata prende una bellissima piega anche per noi: passiamo attraverso un mercato (sì, un altro), sorpassiamo montagne di riso e germogli di soia, e assaggiamo tutti i frutti che ci troviamo davanti. Non ricordo neanche più i nomi! L’ultimo banchetto vende un serpente, condito e pronto da mangiare, e api, già spellate. Quelle vanno fritte.

Una ragazza beve del succo da un sacchetto che tiene chiuso in una mano, con la cannuccia.

Una signora anziana vende rami di una pianta che, se masticata, pulisce i denti.

Arriviamo sul Mekong, dove ci aspetta una barca tutta per noi. Il giro è lungo, durerà un paio d’ore, ma sono sicura che ne varrà la pena!

Accendo la reflex, mi guardo intorno, ed è tutto un susseguirsi di piccoli villaggi con case che sembra stiano in piedi per miracolo, palafitte, ma anche edifici di lusso, sui punti più alti. Barche, moltissime barche. Piccole, quelle di chi pesca, medie, quelle che portano i turisti, e grandi, dove c’è il bucato steso e le persone ci vivono. E poi la natura. Tantissima natura! Dietro a quelle piante c’è la foresta, quella vera, quella con i serpenti le tigri e gli elefanti. Ma quello che mi fa impazzire di questo giro in barca, sono le persone che incontriamo. Concentratissimi pescatori in solitaria sulle loro barchette, famiglie che lavorano la terra, bambini che fanno, felicissimi, il bagno nelle acque fangose del Mekong. Sono uno spettacolo! Li fotografo, e mi accorgo che, nell’immagine, c’è un colore che prevale: il fiume, la terra, la pelle. Tutto si fonde perfettamente in un tono caldo, come se ci fosse impostato il filtro seppiato.

I bambini ridono, si divertono, giocano a schizzarsi, e quando mi vedono mi salutano. Io li amo!

Facciamo una sosta: siamo nel villaggio di Ban Sangkai, dove gli abitanti producono in casa i prodotti che vendono. La prima produzione che vediamo è quella della grappa Lao Lao, ricavata dalla fermentazione del riso. Che sarebbe niente, se non fosse che, dentro alle bottiglie, insieme alla grappa, fioriscono rettili e insetti di ogni tipo. C’è la bottiglia con il seprente, quella con il cobra, o con il geco, lo scorpione, il miellepiedi, le api. Assaggio la grappa. E’ fortissima!

Ancora un po’ intontita, mi ritrovo in mezzo a una marea di sciarpe di seta di ogni colore immaginabile. Dietro a ogni espositore, un telaio. Quando passiamo, le signore ci si siedono per mostrarci come funziona. Sì, è un telaio di quelli antichi, di legno, che funzionano sistemando i fili della trama verticale, e quella orizzontale si crea passando un fuso da una parte all’altra, a mano. Ce ne sono di molto semplici, e di lavoratissime, con decori cuciti a mano. Quelle più complicate, ci vogliono anche tre mesi per farle! Trovo una donna, seduta su uno sgabello minuscolo, sta cucendo a mano il decoro di una sciarpa. Non ci credo! E’ perfetto! Di più che se fosse cucito da uno uno dei nostri freddissimi macchinari.

Ci siamo noi, ma per il resto, il villaggio è veramente deserto. I prodotti esposti sono molti, e io mi chiedo come fanno a guadagnare queste persone.

Risaliamo sulla barca. E’ l’orario di ritorno da scuola: i bambini sono aumentati, ce ne sono tantissimi! Chi ritorna a casa passando sulla riva del fiume, con fratellino al seguito, chi è già in acqua a sguazzare, chi sta semplicemente seduto sui gradini che dal fiume portano al villaggio. Mi guardano, e io mi innamoro ancora.

All’improvviso è di nuovo natura. Natura e silenzio. Fino alla grotta di Pak Ou. Quando ci accostiamo al precario pontile fatto di assi legno, il silenzio è rotto da una festa. Su una barca. Una barca di legno di medie dimensioni, con sedili e tavolini, e un corridoio in mezzo, largo giusto per far passare una persona alla volta. Eppure, i tavolini sono pieni di vivande e roba da bere, la musica è alta, e le persone cantano e ballano in quello spazio ridotto, e ridono e si divertono.

Saliamo le scale e siamo all’interno della grotta: moltissime sculture di Buddha si affollano sulle rocce, sono state portate qui per proteggerle dai pericoli delle guerre. Alcune sono posizionate in insenature così buie e irte da chiedersi come siano potute arrivare fin lì. Sono stati i monaci, perché solo a loro è permesso arrivarci. L’atmosfera è sacrale, il silenzio assordante.

Camminiamo, fino a scorgere una finestra naturale, scolpita nella roccia, che regala uno scorcio da brividi. Sopra le nostre teste, la riproduzione in legno di un’enorme coda di serpente: la riconosciamo, l’abbiamo già vista nei templi. Sulla parte superiore della coda c’è una scanalatura, dentro cui, nei rituali durante il capodanno laotiano, si fa scorrere l’acqua, che, una volta attraversata la coda di serpente, diventa santa.

Mentre percorriamo le scale in discesa, sulla canna di bambù che fa da corrimano si poggia un’elegantissima farfalla arancione, in perfetta armonia con i colori caldi del paesaggio.

Risaliamo sulla barca per arrivare alla sponda opposta, e quando scendiamo, attraversiamo una larga spiaggia di sabbia per raggiungere il ristorante. Calpestiamo una passerella in lamiera, e degli allegrissimi bambini si mettono a ridere per via del rumore dei nostri passi. Incredibile: il rumore che ho provocato, invece di infastidire, diventa una scusa per ridere e rallegrarsi di un’allegria contagiosa e meravigliosa. E’ una sensazione perfetta: loro, con la loro spontaneità, mi fanno sentire a casa.

Il ristorante è rustico, mangiamo su una terrazza che affaccia sul Mekong, e la vista è uno spettacolo. Me la godo per tutta la durata del pranzo, mi mette in pace col mondo. Mi sembra perfetto persino il disegno delle nuvole in cielo.

Prendiamo una Coca-Cola, e sulla lattina notiamo l’immagine stilizzata di un’elegante donna con l’ombrellino di seta. Vorrei portarla a casa!

Quando mi alzo da quella sedia, ancora non so che sto per vivere una delle esperienze che più mi toccherà il cuore e che porterò dentro per sempre. Attraversiamo un villaggio sonnolento e silenziosissimo, passiamo davanti a una piccolissima villetta tinteggiata di verde, che non diresti mai essere un ospedale.

Giriamo l’angolo, e le vedo, in tutto il loro splendore: due magnifiche elefantesse. Voglio avvicinarmi, voglio accarezzarle, voglio abbracciarle e dire loro che le adoro! Mi affeziono subito alla prima, le porgo una banana che lei afferra dalla mia mano e mangia in un attimo. Gliene do un’altra, perché voglio che avvicini a me la proboscide, voglio toccarla, e farle sentire tutto l’affetto che ho per lei. Mi guarda, mi soffia, facendo uscire aria calda e umida dalla proboscide. E’ così bella!

Purtroppo non posso rimanere qui con lei per sempre. E’ ora di tornare indietro, così, mentre torniamo alla riva per riprendere la barca, ci imbattiamo in una coppia di bimbi che giocano in una scatola di polistirolo, e che, quando vedono la macchina fotografica, cominciano a dare spettacolo per essere ritratti. Di fianco, un uomo, loro padre forse, espone utensili da cucina e strumenti musicali realizzati a mano da lui, che ci mostra come suonare.

Il viaggio di ritorno in barca è più breve rispetto all’andata (abbiamo la corrente a favore), ma è così rilassante che ci scappa un riposino. Giusto quello che ci vuole per riprendere il tour alla grande!

Il villaggio di Bang Xang Khong ci accoglie con una scritta di benvenuto. E’ qui che faccio i primi acquisti: sciarpe di seta e di cotone, semplici, decorate, neutre, colorate. E carta di riso: biglietti, buste, quaderni con foglie e petali incastrati nella trama dei fogli, che vengono realizzati a mano, sotto ai miei occhi. Mi affascina da morire!

Il giorno successivo abbiamo la mattinata libera, così cominciamo a informarci su come raggiungere le cascate di Kuang Si: 30km e un’ora di strada ci impediscono di tornare in tempo per l’appuntamento con la guida. Allora scegliamo di visitare il museo etnologico: piccolo e affascinante. Scopriamo le moltissime etnie che affollano il suolo laotiano, a seconda dal paesaggio che i vari luoghi offrono. Per me è una lezione di antropologia, e di vita.

In uscita vedo, solitaria e quasi nascosta, una bellissima signora con cui comunico a gesti e sorrisi. Sta decorando a mano un telo bianco con un pennello piatto di spugna e non so quale pigmento naturale, color senape. E’ molto concentrata, ma la mia interruzione non la disturba. Il decoro è geometrico e regolare, e nell’insieme ha un effetto armonioso.

Un’ultima passeggiata a piedi per le vie di questa città incantevole, e ,nel tornare verso l’albergo, notiamo un certo movimento nel cortile di un edificio poco distante. Non ci credo! Si stanno svolgendo le selezioni per Miss Laos! Sbriciamo. Si può assistere! Mi aspetto decine di ragazze in body, e invece le eleganti donzelle indossano il classico outfit di longuette e camicetta. Loro sono perfette così, senza un centimetro di pelle scoperta. La tensione sui loro volti è evidente. Volti da una fisionomia regolare: forma del viso un po’ squadrata, occhi a mandorla e pelle leggermente abbronzata. Capelli lunghi e neri, e sorrisi dolcissimi. Mi piace tantissimo essere qui!

L’ultima visita prima della partenza è fissata per il museo del palazzo reale. Lascio la borsa, tolgo le scarpe, infilo il maglioncino (oggi ho azzardato una canottiera, perciò devo coprire le spalle). Il museo è un susseguirsi di oggetti appartenenti alla famiglia reale. Come capita spesso quando visito posti al chiuso che richiedano più di 15 minuti, dopo un po’ perdo l’attenzione. I miei sensi vengono risvegliati alla vista del tempio che ospita il Phra Bang, l’antico Buddha d’oro alto 83cm che è stato un simbolo politico e che dà il nome alla città: la facciata è decorata da intagli dorati, su uno sfondo di mosaico verde brillante. La scultura custodita all’interno è talmente sacra e preziosa, che non si può entrare e non si può fotografare.

Partiamo alla volta del minuscolo aeroporto, da cui voleremo verso Hanoi, la capitale del Vietnam.

Lascio il Laos con la soddisfazione di aver scoperto un angolo di mondo quasi inesplorato, dal fascino grandioso. Faccio fatica a capire se ad attirarmi di più siano stati i luoghi, le persone, o il senso di spiritualità che questo posto mi ha trasmesso. Quello che so per certo è che mi rimarrà dentro per la vita.

 

Autore:Schermata 2019-04-16 alle 10.11.33

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Indocina – Maldive: La valigia

E’ ora di chiudere la valigia: porterò…

  • uno zaino, utile per tenere un cambio e gli oggetti per la sopravvivenza, nel caso la valigia venisse smarrita nei numerosi spostamenti in aereo;
  • magliette di cotone: in Indocina il clima è caldo…caldissimo e c’è umidità a livelli elevatissimi;
  • pantaloni lunghi almeno sotto il ginocchio e una sciarpa per coprire le spalle: l’equipaggiamento necessario per essere abbastanza coperti da poter visitare i templi buddhisti;
  • calzini senza buchi: ci si toglie spesso le scarpe per entrare nei luoghi sacri! L’alternativa è indossare sandali o scarpe aperte, più adatti per essere messi e tolti più volte, e per soffrire meno il caldo. Attenzione però: si calpesteranno suoli fatti di terreno, e qualche volta un po’ sconnessi;
  • una maglia a maniche lunghe: il caldo umido dell’esterno è spesso compensato dall’aria condizionata a livelli da pazzi dentro i locali. Io un maglioncino, seppur leggero, lo terrei a portata di mano;
  • un tubetto di detersivo formato viaggio: approfitterò dei pochi soggiorni di due notti per lavare biancheria intima e magliette (un viaggio di quasi quattro settimana richiederà sicuramente qualche bucato);
  • un k-way: dal Vietnam centrale in giù è stagione delle piogge, perciò, dovendo girare parecchio con il rischio di trovare brutto tempo, meglio essere pratici e comodi con un impermeabile, piuttosto che con l’ombrello. Nel caso piovesse troppo e l’ombrello fosse necessario, gli hotel ne mettono a disposizione uno a persona;
  • spray antizanzare: il tasso di umidità può arrivare fino al 90%, e le zanzare tropicali non sono dolci come le nostre! Meglio procurarsi un buon repellente: chiedete in farmacia il più forte che hanno;
  • imodium, fermenti lattici e un lassativo: è vero che c’è probabilità di avere problemi di stomaco, perché gli standard in fatto di condizioni igieniche sono un tantino diversi dai nostri, ma è vero anche che in ogni portata si mangerà del riso, che non è famoso per aiutare ad andare in bagno! E comunque un cambiamento di alimentazione per diverse settimane può avere effetti diversi sul nostro stomaco: meglio essere attrezzati per ogni evenienza;
  • crema con protezione solare e occhiali da sole: non solo per le Maldive, ma la pelle del viso richiederà di essere protetta anche sotto il sole dell’Indocina, così come gli occhi;
  • una confezione di pacchetti di crackers: soprattutto se soffrite di attacchi di fame, portare con sé una merenda non è una brutta idea. Scoprirete che non in tutti i luoghi che visiterete esistono i supermercati, o dei posti in cui acquistare degli snack sani. In compenso potrete lasciarvi tentare dai banchetti che vendono frutta, centrifugati, o succhi estratti dalla canna da zucchero, veramente buonissimi!
  • collirio: niente di esageratamente curativo, bastano delle gocce emollienti e umettanti, che aiutino i vostri occhi a sopportare il bagliore accecante del sole riflesso sulla sabbia bianchissima delle Maldive;
  • dollari americani: che li portiate dall’Italia o li cambiate sul posto, tutti i Paesi dell’indocina, e anche le Maldive, accettano tranquillamente i dollari americani. Il Laos e il Vietnam hanno ognuno la loro moneta, che potrete cambiare e utilizzare in alternativa alla moneta americana; in Cambogia preferiscono i dollari, tanto che molti abitanti del posto ricevono lo stipendio in tale valuta; le Maldive hanno i listini dei prezzi espressi direttamente in dollari;
  • immancabile, last but not least: la macchina fotografica! Luoghi incantevoli, paesaggi dalle mille sfaccettature, colori, volti, animali, fiori…non lasciateveli scappare!

Non mi resta che sperare di essere stata utile, e augurarvi un buonissimo viaggio: vedrete, rimarrete incantati da queste terre meravigliose!

 

Autore:Schermata 2019-04-16 alle 10.11.33

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Dear Diary: Thailand vol. IV

Partiamo alla volta di Chiang Mai la mattina presto:
biglietto del treno fatto,
la nostra tipica colazione tailandese (yogurt, banana e succo di frutta) fatta,
puntate di Narcos preventivamente scaricate
… siamo pronti per le 9h di treno che ci aspettano.

Nonostante le infinite ore di viaggio, consiglierei anche a posteriori di fare la tratta con il treno invece che con qualsiasi altro mezzo. E’ una sorta di oriental express che attraversa tutti i paesini, costeggia immense foreste e piantagioni di ogni genere. Il treno e’ attrezzato con colazione, pranzo, merenda e cena e ti da la possibilita’ di incontrare altri turisti sul vagone dedicato ai viaggiatori (il 9).

Ci tengo a sottolineare l’organizzazione che hanno avuto nel trasformare un semplice spostamento in una vera e propria esperienza positiva: alla stazione dei treni, una volta fatto il biglietto, e’ pieno di personale tailandese che ti chiede dove sei diretto e ti accompagna letteralmente al binario  corretto. Una volta saliti in treno siamo stati coccolati da una signora tailandese che ci ha prontamente offerto the/caffe/succhi/acqua. Nulla di paragonabile ai nostri regionali che attraversano l’intera italia e che se sei fortunato ti portano almeno a destinazione, altrimenti nemmeno quello (scusate lo sfogo).

Passiamo il viaggio alternando nasi attaccati al finestrino a puntate di Narcos, le piantagioni viste da vicino e quelle di Pablo, la poverta’ fuori dal vagone e quella della Colombia. Arriviamo in serata a Chiang Mai e alloggiamo qui, dove ci fermiamo due notti. Decidiamo subito di organizzarci le giornate con attivita’ che avevamo visto di poter fare solo a Chiang Mai, un po’ per il contesto e un po’ perche’ essendo fuori dalle zone prettamente turistiche avremmo potuto calarci un po’ di piu’ nella realta’ tailandese. Dopo aver adempiuto al nostro “dovere organizzativo”,  andiamo a cenare al Night Market ( a differenza di quello di Ayutthaya con un po’ di gente per strada! se non sai di cosa sto parlando, clicca qui)

Il primo giorno a Chiang Mai mi ha regalato una delle esperienze che mai dimentichero’ per tutta la vita (il contatto con cui abbiamo organizzato e’ qui).
Iniziamo la giornata con una escursione nella giungla. Partiamo di buon ora con un furgoncino che ci porta all’inizio del nostro hiking selvaggio con una guida a dir poco eccezionale. Essendo in pochi ha infatti la possibilita’ di spiegarci tutto quello che ci circonda: frutti, animali, peculiarita’ della zona e meterologia locale. Dopo poco piu’ di un’ora di cammino arriviamo a destinazione sfatti e bagnati come se avessimo fatto una doccia. Si, esatto, “come se avessimo fatto una doccia” e invece era tutto sudore. Ad accoglierci alla fine del nostro calvario c’e’ pero’ una cascata con una pozza dove poter fare il bagno. Senza pensarci due volte (va beh, io un po’ ci ho pensato per via dell’acqua torbida) ci buttiamo nella pozza d’acqua fresca che sembra la cosa piu’ bella mai vista, dopo la visione dell’acqua fresca in bottiglia. Scendiamo leggermente per raggiungere la nostra seconda attivita’: rafting. Indossiamo elmetto e giubbotto di salvataggio, mettiamo il gommone in fiume e partiamo per gli 8 km di navigazione tra sassi, mulinelli d’acqua, salti e paesaggi da “Il Libro della Giungla”.
Dopo 40 minuti di pagaiate arriviamo nella casa – campo base: fondamentalmente una casa privata, utilizzata come appoggio per poter mangiare e fare da collegamento con altre attivita’ tra cui il santuario degli elefanti e il giro sul Quad.
Ci viene offerto un pranzo semplice ma fatto con amore: alimenti unici e locali, verdure fresche e curry divino.
Subito dopo pranzo saliamo nel cassone di un fuoristrada e veniamo portati nell’oasi degli elefanti.

AVVERTIMENTO: non affidatevi a qualsiasi ente vi capiti a tiro. Spesso gli elefanti vengo picchiati, maltrattati semplicemente per poter essere utilizzati come attrattiva per i turisti. Informatevi prima di acquistare qualsiasi tipo di tour o esperienza con questi splendidi mammiferi.

Nel nostro caso si trattava di una pensione per elefanti. Questa famiglia composta da 3 ragazzi e i genitori, si occupano in tutto e per tutto dei 3 elefanti che nutrono e curano quotidianamente. Nonostante la poverta’ in cui vivono questa famiglia paga l’equivalente di 1000€ a elefante al mese per poterlo nutrire e curare. Gli animali in questo contesto sono infatti completamente liberi, giocano con i ragazzi nell’acqua come veri amici, sono sereni e non subiscono alcun tipo di maltrattamento. L’esperienza e’ qualcosa di unico e irripetibile.

Dopo le mille attivita’ della giornata decidiamo di farci un ultimo regalo: un massaggio tailandese rilassante.

CONSIGLIO: assolutamente da fare almeno una volta, se non potete andare fuori Bangkok scegliete almeno un centro vero e proprio, non i massaggiatori che trovate lungo le strade.

Per il secondo giorno a Chiang Mai decidiamo di imparare qualcosa della cultura locale, ci affidiamo quindi a AsiaScenic per fare una mezza giornata di cucina tailandese nella loro farm.

CONSIGLIO: anche se prenotate la mezza giornata, il corso durera’ fino almeno le 15 di pomeriggio. Non fate come noi che pensavamo di poter dedicare la mattina fino al massimo a pranzo e poter ripartire alle 15 verso una nuova destinazione. Abbiamo perso l’unico pullman della giornata che ci avrebbe portato a Chiang Rai e abbiamo dovuto prendere un nuovo volo per Phuket (con partenza Chang Mai e non Chang Rai) e una  stanza per la notte in piu’ (fortunatamente Rainforest aveva ancora una camera disponibile).

Il corso di cucina e’ stato un’esperienza a 360 gradi: dal mercato e la descrizione degli ingredienti base alla farm che ci ha ospitati. Un sistema completamente autosufficiente di colture, bisogni e servizi soddisfatti dal cerchio che questi tailandesi hanno creato per vivere e sopravvivere senza l’aiuto di fattori esterni. In questo contesto abbiamo imparato a cucinare alcuni piatti tipici della cucina tailandese, tra cui l’immancabile riso al curry.

Avendo perso qualsiasi mezzo per poter andare a Chiang Rai, decidiamo quindi di rilassarci con un bagno in piscina e goderci l’ultima serata a Chiang Mai.

 

Storie d’Islanda

Amo viaggiare e portarmi a casa delle storie che sono tramandate di generazione in generazione, di viaggiatore in viaggiatore. Le mie personalissime storie d’islanda che ho portato a casa mi sono state raccontate da burberi vichinghi mentre preparavano caffe’ dietro a un bancone in legno, da anziani conosciuti su una fredda panchina di Reykjavik e da biondissime studentesse all’interno di una calda e accogliente libreria di Akureyri.


Nell’angolo più remoto del giardino di ogni casa islandese che si rispetti, ecco comparire tre casette di legno vicine l’una all’altra. Sono le abitazioni degli elfi, il popolo invisibile. Narra la leggenda che gli elfi fossero anch’essi figli di Eva, madre di tutti gli uomini.
Un giorno Dio annunciò ad Eva che sarebbe andato a cena da lei, per conoscere tutti i suoi figli. Eva, come ogni madre, iniziò a lavare e preparare i figli per l’evento, ma, poiché erano tanti, non riuscì a fare il bagno a tre. Per non mostrarli in disordine davanti a Dio, li nascose nell’armadio.
Durante la cena Dio chiese a Eva se quelli che sedevano nella stanza erano tutti i suoi figli e la donna confermò. Allora Dio che è onnisciente continuò: “ciò che è nascosto a Dio, sarà nascosto per sempre anche agli uomini!” Eva corse disperata all’armadio, ma lo trovò vuoto.
Dio aveva reso invisibili i tre bimbi agli occhi degli uomini. Solo chi ha cuore puro può vederli.


Una leggenda racconta di due giganti che, cercando di portare a riva una nave, furono sorpresi dall’alba prima di potersi nascondere in montagna e vennero trasformati, insieme all’imbarcazione, nei tre faraglioni in pietra. Tutti e tre hanno ovviamente un nome e sono: Skessudrangur, Langhamar e Landdrangur.


Secondo la leggenda, in una fattoria in riva al lago di Lagarfljot viveva una ragazza che aveva acquistato un anello d’oro. Aveva sentito dire che mettendo in una scatola un verme, con sopra l’oro, era possibile aumentarne la grandezza. Quando la ragazza, la settimana più tardi, andò a controllare l’anello, il verme era cresciuto così tanto da non contenerlo. Spaventata, afferrò la scatola e la lancio nel lago. Con il tempo il verme si trasformò in un drago che popola tutt’ora il lago in questione. Dopo la visione di un filmato, la commissione governativa ha poi dichiarato reale la leggenda in questione.