Ecco, su Luang Prabang potrei scrivere un libro…o forse no. Forse farò fatica a trovare le parole, invece…
Per cominciare, l’albergo: un piccolo villaggio di bungalow su due piani, arredati in maniera spartana e incantevole, con un cortile pieno di alberi di frangipane (quel fiore tropicale bianco con l’interno giallo, che finché non lo vedi dal vivo pensi che esista solo nei cartoni animati) e altri strambi esemplari di flora locale. Nel mezzo, uno stagno su cui poggiano soavi, a decine, foglie e fiori di loto, che si aprono la mattina e si chiudono la sera: un vero spettacolo della natura!
Inizia la visita: la nostra nuova guida, una donna di quasi quarant’anni a cui ne avrei dati dieci di meno, ci accompagna in una passeggiata a piedi per la città. Quello che preferisco! Di solito cammino con il naso all’insù per non lasciarmi scappare nemmeno un particolare; per fortuna c’è mio marito: spesso, se non inciampo o non calpesto cose, è grazie a lui, che d’istinto mi spinge come se mi stesse salvando da un pericolosissimo missile in corsa sulla traiettoria del mio naso.
Le strade sono silenziose e quasi deserte; lo stile delle abitazioni che ci circondano lascia trasparire la semplicità delle persone che ci vivono, e per me è amore a prima vista!
Questo Paese ha dei colori spettacolari: dal marroncino del Mekong, il fiume che fa da confine naturale tra Laos e Thailandia; ai tuk tuk arcobaleno che, con i loro sonnolenti autisti, affollano le strade; all’arancio degli abiti dei monaci; al fucsia della buccia del dragon fruit (se non l’avete mai assaggiato, fatelo! E’ inebriante); ai mille colori degli abiti di seta indossati dalle donne laotiane; ai rosso e oro dei templi, che non mancano mai.
Costeggiamo il fiume, e passiamo davanti a dipinti orientali appesi a un filo tra un albero e l’altro, a delicatissimi boutique hotel dai nomi più disparati, a minuscoli baracchini che, nonostante sia primo pomeriggio e nonostante ci sia veramente pochissima gente in giro, grigliano carne e altra roba indecifrabile su uno spiedo.
Il primo tempio che visitiamo è il Vat Xieng Thong: davanti a noi, un edificio dalle pareti color del mattone, ornate da un bellissimo mosaico che raffigura un grande albero, con attorno minuscole scene di vita quotidiana, sempre in mosaico.
In Indocina, un tempio non è mai solo un tempio: è anche tutto ciò che gli sta attorno. Il cortile, piccoli stupa, l’abitazione dei monaci, un trono, all’esterno, su cui siede comodamente almeno un Buddha al riparo di una doratissima e preziosa tettoia, la biblioteca, e altri edifici, tutti finemente decorati.
Mentre camminiamo, la nostra attenzione è attirata da un suono: manca un’ora alla preghiera, perciò i monaci devono riunirsi per pulire i templi e le strade, e farsi la doccia (all’aperto, di fianco ai loro appartamenti), pronti per la preghiera del pomeriggio.
La passeggiata continua: siamo nel quartiere francese. Elegante, ordinato, sofisticato. Le botteghe che si susseguono sulla strada sono in pieno stile parigino, e la scuola che vi si trova è bilingue. Proprio così: i bambini, oltre alla lingua laotiana, studiano il francese, e a me sembra un mondo magico. Il Laos, come il resto dell’Indocina, è stato, in passato, sotto il dominio francese per un centinaio di anni, e per Luang Prabang è stata una benedizione: riqualificazione del territorio e avanzamento tecnologico sono solo alcune delle migliorie che hanno permesso a questa città di diventare quella che è oggi.
Ci fermiamo a visitare un altro tempio, e qui la nostra guida interpella il capo dei monaci: la richiesta è di prendere per la sua famiglia i frutti maturi da un albero nel cortile. Quando il capo monaco arriva (prima di presentarsi, copre la spalla con la veste arancione) mi sembra di entrare in un’altra dimensione: finora ho visto solo monaci bambini e ragazzini, mentre lui è adulto, porta un paio di occhiali da vista, e una cicatrice sul petto. E il peso di tutta la sua esperienza sulle spalle. La testa gli fa male, e ci racconta che la cicatrice se l’è guadagnata con un’operazione delicata. Gli chiedo di poterlo fotografare, e, mettendosi in posa con orgoglio, schiena dritta e petto in fuori, stringe gli occhi in un sorriso, dolce e al tempo stesso amaro, carico di sofferenza.
Aiutati dai monaci bambini, riempiamo un sacchetto di quei frutti. La guida ci racconta che in Laos, se non lavori per lo Stato, la pensione non ce l’hai, e allora quando i genitori smettono di lavorare, sono i figli che si prendono cura di loro. Ecco quello che stava facendo lei: stava provvedendo alla tavola dei suoi cari. E poi ci racconta che la lunghezza dei capelli delle donne (seppure siano sempre raccolti) dipende dal loro stato civile: se sei nubile i capelli vanno portati lunghi, se sei sposata i capelli si accorciano alle spalle.
Una cosa che si nota subito a Luang Prabang è che, nonostante il caldo infernale, le donne portano tutte una longuette di seta, tinta unita, con una fascia in fondo ricamata con filo dorato, e indossata con un sistema di sovrapposizione sul fianco, e una camicetta con maniche a tre quarti, di seta, con i bottoni tondi. Sono bellissime, sobrie, ed eleganti. E sono tutto questo con una disinvoltura da fare invidia.
Ora saliamo sul Phu Si, la collina sacra che domina il paesaggio di Luang Prabang: centinaia di scalini di mattone, con corrimano a forma di coda di serpente. A metà, una piazzola. Ci fermiamo: spruzziamo l’antizanzare, facciamo qualche fotografia, sbirciamo una piccola nicchia dentro cui sta un Buddha, a cui è stato portato in offerta del riso. Qui ogni angolo è un Buddha! Più saliamo, più si avvicina il brusio: in cima alla collina ci sono altre persone, altre statue, di Buddha e dei suoi discepoli, un baracchino che vende offerte e bevande, e passerotti da liberare, il Vat Chom Si, e, finalmente, la terrazza più alta. Luang Prabang dall’alto è una meraviglia: tutto è rosso e verde, con il Mekong che taglia il paesaggio.
Scendendo, mi fermo da un ragazzo che mi prepara una centrifuga con dragon fruit cocco fresco e banana, sbucciati e tagliati al momento. Il cocco qui non si mangia quando è secco e marrone, con la polpa bianca e spessa; si mangia fresco, quando è ancora verde: si taglia a un’estremità, si beve il succo, e poi si apre un po’ più a fondo, recuperando un pezzo della buccia rigida a fare da cucchiaio, per raschiare da dentro la polpa, sottilissima, dolce, si scioglie in bocca.
Bevo il mio succo mentre ci addentriamo nel mercato notturno: un tripudio di colori fatto di seta carta e bambù, i materiali più diffusi qui. Le donne sistemano la merce su un telo sull’asfalto, e si siedono per terra a chiacchierare; le ragazzine sorridono guardando un cellulare; i bambini più grandi fanno i compiti, i più piccoli sbadigliano.
Qui tutti sono rispettosi del silenzio e della pace che regnano, persino al mercato. Persino chi espone le bancarelle: nessuno parla ad alta voce, e se ti avvicini a osservare la merce, ti sorridono, e al massimo te la mostrano più da vicino.
Ci addentriamo nelle traverse, più strette e più affollate: qui c’è lo street food. Sui banchetti, pezzi di carne e pesce essiccati al sole, involtini primavera, salsicce così scure da sembrare nere, carne di bufalo e pesce del Mekong, porzioni di riso avvolte nelle foglie di banana come fossero pacchetti regalo, brodo d’anatra (ho visto con i miei occhi le anatre spennate nel pentolone), e un odore di citronella che ti entra nel cervello.
La giornata volge al termine, e, mentre rincasiamo in albergo, la nostra guida si ferma a un banchetto ambulante di una signora che ci viene incontro. E’ una cariola, in realtà, che contiene del riso piccante: la signora, con movimenti veloci e sicuri, come se li ripetesse migliaia di volte al giorno da anni, in una mano si aggiusta una foglia di banana, e con l’altra la riempie della pietanza; poi chiude la foglia con una disinvoltura da lasciare a bocca aperta.
Scopriamo che la guida e la venditrice ambulante si conoscono, sono amiche. Ma qui non è sempre così: le persone per la strada si rivolgono la parola, si scambiano sorrisi, anche senza conoscersi. E’ questo il mio mondo ideale, dove tutti sono gentili con tutti, nessuno ha fretta, e i sorrisi si sprecano. Impariamo il saluto, sabaidee, che loro non pronunciano mai senza un inchino, e a ringraziare, khop jai, o khop jai lai lai, grazie mille. Le dico, queste parole, le dico molte volte, ogni volta che parlo con qualcuno del posto, e non mi vergogno, e le accompagno sempre con un sorriso. Quanti sorrisi ho visto in Laos!
La guida ci suggerisce di uscire sulla via principale il giorno dopo, alle 5:30 del mattino, se vogliamo assistere alla questua dei monaci. Siamo in vacanza, abbiamo fatto un viaggio lunghissimo, ci sono 5 ore avanti rispetto all’Italia, ma io alle 5:45 sono in strada, e vivo un’esperienza mistica, di un significato che sento essere profondissimo. Moltissimi monaci, uno dietro l’altro, a gruppi, camminano veloci passando davanti alle persone che riempiono di offerte i secchielli di bambù che portano a spalla. Arrivano da destra. E da sinistra. Un gruppo di cinque o sei, si incrociano con un altro gruppo di…saranno una quindicina! Altri sono più in là, altri ci vengono incontro. Loro colorano di arancione le strade che fino a poco fa erano avvolte nel grigio della penombra.
In un mondo d’altri tempi, dove la disciplina è severa, ma non è percepita come troppo dura; dove le tradizioni sono ancora ben ancorate nel cuore della gente; dove il rispetto per la religione è maniacale, i monaci vivono delle sole offerte dei fedeli. Questo insegna loro a saper apprezzare ciò che hanno, ad accontentarsi e a non desiderare di più. Pregano molto e mangiano poco.
Gli uomini hanno l’obbligo di fare i monaci per almeno un breve periodo. Un paio di settimane, qualche mese, o tutta la vita. A quale età non conta.
Ci accorgiamo che qui la vita inizia alle 6 del mattino: le luci sono accese, le saracinesche si alzano, il traffico in strada si intensifica, il cibo è già sulla griglia.
La giornata prende una bellissima piega anche per noi: passiamo attraverso un mercato (sì, un altro), sorpassiamo montagne di riso e germogli di soia, e assaggiamo tutti i frutti che ci troviamo davanti. Non ricordo neanche più i nomi! L’ultimo banchetto vende un serpente, condito e pronto da mangiare, e api, già spellate. Quelle vanno fritte.
Una ragazza beve del succo da un sacchetto che tiene chiuso in una mano, con la cannuccia.
Una signora anziana vende rami di una pianta che, se masticata, pulisce i denti.
Arriviamo sul Mekong, dove ci aspetta una barca tutta per noi. Il giro è lungo, durerà un paio d’ore, ma sono sicura che ne varrà la pena!
Accendo la reflex, mi guardo intorno, ed è tutto un susseguirsi di piccoli villaggi con case che sembra stiano in piedi per miracolo, palafitte, ma anche edifici di lusso, sui punti più alti. Barche, moltissime barche. Piccole, quelle di chi pesca, medie, quelle che portano i turisti, e grandi, dove c’è il bucato steso e le persone ci vivono. E poi la natura. Tantissima natura! Dietro a quelle piante c’è la foresta, quella vera, quella con i serpenti le tigri e gli elefanti. Ma quello che mi fa impazzire di questo giro in barca, sono le persone che incontriamo. Concentratissimi pescatori in solitaria sulle loro barchette, famiglie che lavorano la terra, bambini che fanno, felicissimi, il bagno nelle acque fangose del Mekong. Sono uno spettacolo! Li fotografo, e mi accorgo che, nell’immagine, c’è un colore che prevale: il fiume, la terra, la pelle. Tutto si fonde perfettamente in un tono caldo, come se ci fosse impostato il filtro seppiato.
I bambini ridono, si divertono, giocano a schizzarsi, e quando mi vedono mi salutano. Io li amo!
Facciamo una sosta: siamo nel villaggio di Ban Sangkai, dove gli abitanti producono in casa i prodotti che vendono. La prima produzione che vediamo è quella della grappa Lao Lao, ricavata dalla fermentazione del riso. Che sarebbe niente, se non fosse che, dentro alle bottiglie, insieme alla grappa, fioriscono rettili e insetti di ogni tipo. C’è la bottiglia con il seprente, quella con il cobra, o con il geco, lo scorpione, il miellepiedi, le api. Assaggio la grappa. E’ fortissima!
Ancora un po’ intontita, mi ritrovo in mezzo a una marea di sciarpe di seta di ogni colore immaginabile. Dietro a ogni espositore, un telaio. Quando passiamo, le signore ci si siedono per mostrarci come funziona. Sì, è un telaio di quelli antichi, di legno, che funzionano sistemando i fili della trama verticale, e quella orizzontale si crea passando un fuso da una parte all’altra, a mano. Ce ne sono di molto semplici, e di lavoratissime, con decori cuciti a mano. Quelle più complicate, ci vogliono anche tre mesi per farle! Trovo una donna, seduta su uno sgabello minuscolo, sta cucendo a mano il decoro di una sciarpa. Non ci credo! E’ perfetto! Di più che se fosse cucito da uno uno dei nostri freddissimi macchinari.
Ci siamo noi, ma per il resto, il villaggio è veramente deserto. I prodotti esposti sono molti, e io mi chiedo come fanno a guadagnare queste persone.
Risaliamo sulla barca. E’ l’orario di ritorno da scuola: i bambini sono aumentati, ce ne sono tantissimi! Chi ritorna a casa passando sulla riva del fiume, con fratellino al seguito, chi è già in acqua a sguazzare, chi sta semplicemente seduto sui gradini che dal fiume portano al villaggio. Mi guardano, e io mi innamoro ancora.
All’improvviso è di nuovo natura. Natura e silenzio. Fino alla grotta di Pak Ou. Quando ci accostiamo al precario pontile fatto di assi legno, il silenzio è rotto da una festa. Su una barca. Una barca di legno di medie dimensioni, con sedili e tavolini, e un corridoio in mezzo, largo giusto per far passare una persona alla volta. Eppure, i tavolini sono pieni di vivande e roba da bere, la musica è alta, e le persone cantano e ballano in quello spazio ridotto, e ridono e si divertono.
Saliamo le scale e siamo all’interno della grotta: moltissime sculture di Buddha si affollano sulle rocce, sono state portate qui per proteggerle dai pericoli delle guerre. Alcune sono posizionate in insenature così buie e irte da chiedersi come siano potute arrivare fin lì. Sono stati i monaci, perché solo a loro è permesso arrivarci. L’atmosfera è sacrale, il silenzio assordante.
Camminiamo, fino a scorgere una finestra naturale, scolpita nella roccia, che regala uno scorcio da brividi. Sopra le nostre teste, la riproduzione in legno di un’enorme coda di serpente: la riconosciamo, l’abbiamo già vista nei templi. Sulla parte superiore della coda c’è una scanalatura, dentro cui, nei rituali durante il capodanno laotiano, si fa scorrere l’acqua, che, una volta attraversata la coda di serpente, diventa santa.
Mentre percorriamo le scale in discesa, sulla canna di bambù che fa da corrimano si poggia un’elegantissima farfalla arancione, in perfetta armonia con i colori caldi del paesaggio.
Risaliamo sulla barca per arrivare alla sponda opposta, e quando scendiamo, attraversiamo una larga spiaggia di sabbia per raggiungere il ristorante. Calpestiamo una passerella in lamiera, e degli allegrissimi bambini si mettono a ridere per via del rumore dei nostri passi. Incredibile: il rumore che ho provocato, invece di infastidire, diventa una scusa per ridere e rallegrarsi di un’allegria contagiosa e meravigliosa. E’ una sensazione perfetta: loro, con la loro spontaneità, mi fanno sentire a casa.
Il ristorante è rustico, mangiamo su una terrazza che affaccia sul Mekong, e la vista è uno spettacolo. Me la godo per tutta la durata del pranzo, mi mette in pace col mondo. Mi sembra perfetto persino il disegno delle nuvole in cielo.
Prendiamo una Coca-Cola, e sulla lattina notiamo l’immagine stilizzata di un’elegante donna con l’ombrellino di seta. Vorrei portarla a casa!
Quando mi alzo da quella sedia, ancora non so che sto per vivere una delle esperienze che più mi toccherà il cuore e che porterò dentro per sempre. Attraversiamo un villaggio sonnolento e silenziosissimo, passiamo davanti a una piccolissima villetta tinteggiata di verde, che non diresti mai essere un ospedale.
Giriamo l’angolo, e le vedo, in tutto il loro splendore: due magnifiche elefantesse. Voglio avvicinarmi, voglio accarezzarle, voglio abbracciarle e dire loro che le adoro! Mi affeziono subito alla prima, le porgo una banana che lei afferra dalla mia mano e mangia in un attimo. Gliene do un’altra, perché voglio che avvicini a me la proboscide, voglio toccarla, e farle sentire tutto l’affetto che ho per lei. Mi guarda, mi soffia, facendo uscire aria calda e umida dalla proboscide. E’ così bella!
Purtroppo non posso rimanere qui con lei per sempre. E’ ora di tornare indietro, così, mentre torniamo alla riva per riprendere la barca, ci imbattiamo in una coppia di bimbi che giocano in una scatola di polistirolo, e che, quando vedono la macchina fotografica, cominciano a dare spettacolo per essere ritratti. Di fianco, un uomo, loro padre forse, espone utensili da cucina e strumenti musicali realizzati a mano da lui, che ci mostra come suonare.
Il viaggio di ritorno in barca è più breve rispetto all’andata (abbiamo la corrente a favore), ma è così rilassante che ci scappa un riposino. Giusto quello che ci vuole per riprendere il tour alla grande!
Il villaggio di Bang Xang Khong ci accoglie con una scritta di benvenuto. E’ qui che faccio i primi acquisti: sciarpe di seta e di cotone, semplici, decorate, neutre, colorate. E carta di riso: biglietti, buste, quaderni con foglie e petali incastrati nella trama dei fogli, che vengono realizzati a mano, sotto ai miei occhi. Mi affascina da morire!
Il giorno successivo abbiamo la mattinata libera, così cominciamo a informarci su come raggiungere le cascate di Kuang Si: 30km e un’ora di strada ci impediscono di tornare in tempo per l’appuntamento con la guida. Allora scegliamo di visitare il museo etnologico: piccolo e affascinante. Scopriamo le moltissime etnie che affollano il suolo laotiano, a seconda dal paesaggio che i vari luoghi offrono. Per me è una lezione di antropologia, e di vita.
In uscita vedo, solitaria e quasi nascosta, una bellissima signora con cui comunico a gesti e sorrisi. Sta decorando a mano un telo bianco con un pennello piatto di spugna e non so quale pigmento naturale, color senape. E’ molto concentrata, ma la mia interruzione non la disturba. Il decoro è geometrico e regolare, e nell’insieme ha un effetto armonioso.
Un’ultima passeggiata a piedi per le vie di questa città incantevole, e ,nel tornare verso l’albergo, notiamo un certo movimento nel cortile di un edificio poco distante. Non ci credo! Si stanno svolgendo le selezioni per Miss Laos! Sbriciamo. Si può assistere! Mi aspetto decine di ragazze in body, e invece le eleganti donzelle indossano il classico outfit di longuette e camicetta. Loro sono perfette così, senza un centimetro di pelle scoperta. La tensione sui loro volti è evidente. Volti da una fisionomia regolare: forma del viso un po’ squadrata, occhi a mandorla e pelle leggermente abbronzata. Capelli lunghi e neri, e sorrisi dolcissimi. Mi piace tantissimo essere qui!
L’ultima visita prima della partenza è fissata per il museo del palazzo reale. Lascio la borsa, tolgo le scarpe, infilo il maglioncino (oggi ho azzardato una canottiera, perciò devo coprire le spalle). Il museo è un susseguirsi di oggetti appartenenti alla famiglia reale. Come capita spesso quando visito posti al chiuso che richiedano più di 15 minuti, dopo un po’ perdo l’attenzione. I miei sensi vengono risvegliati alla vista del tempio che ospita il Phra Bang, l’antico Buddha d’oro alto 83cm che è stato un simbolo politico e che dà il nome alla città: la facciata è decorata da intagli dorati, su uno sfondo di mosaico verde brillante. La scultura custodita all’interno è talmente sacra e preziosa, che non si può entrare e non si può fotografare.
Partiamo alla volta del minuscolo aeroporto, da cui voleremo verso Hanoi, la capitale del Vietnam.
Lascio il Laos con la soddisfazione di aver scoperto un angolo di mondo quasi inesplorato, dal fascino grandioso. Faccio fatica a capire se ad attirarmi di più siano stati i luoghi, le persone, o il senso di spiritualità che questo posto mi ha trasmesso. Quello che so per certo è che mi rimarrà dentro per la vita.
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