Baia di HaLong

Palme tutto intorno, e statue di delfini. Sembra di essere in California!

Ci avviciniamo al molo per gli imbarchi, scarichiamo le valigie, ed entriamo nella sala apparecchiata per il pranzo della nave che ci porterà in crociera sulla Baia di HaLong per due giorni. Sulla barca con noi, un’enorme comitiva di malesiani, un gruppetto multietnico di ragazzi giovani, dei tedeschi che abbiamo già incontrato in Laos. Dopo le indicazioni per l’assegnazione delle cabine e per la prossima escursione, il personale di bordo si dà da fare per servire il pranzo a molte persone in uno spazio parecchio ristretto. Esco per scattare qualche fotografia alla città in lontananza: un’alternanza di edifici bassi e grattacieli, dietro alla foschia. Siamo fortunati: la giornata è splendida, il sole spacca le pietre, mentre di solito qui regna la nebbia. Anche se credo che non mi sarebbe dispiaciuto vedere la baia ammantata da bianco mistero.

Cominciamo ad allontanarci dal porto, e subito ci ritroviamo circondati da centinaia di faraglioni di ogni forma e dimensione: il panorama è davvero suggestivo e molto molto rilassante. La stagione non è alta, perciò le barche in mare non sono moltissime. Dopo il pranzo passiamo per la cabina: la nostra ha il balcone! Devo cambiarmi per l’escursione, ma giuro che rimarrei su questa brandina al sole a godermi il vento tra i capelli, il silenzio e la pace dei sensi che questa vista mi trasmette. I faraglioni, o piccole isole, che sorgono dalle azzurrissime acque del mare, sono color della roccia. Sulla maggior parte di essi, è cresciuta della vegetazione bassa e irregolare: sembrano tante testoline piene di ricci!

Scendiamo dalla nave per salire su un’imbarcazione più piccola, che ci porta su una piattaforma. Qui c’è un allevamento di ostriche per le perle. Mentre gli altri ascoltano con attenzione la guida che racconta il processo di produzione di una perla, noi facciamo un giro veloce e saltiamo sul primo kayak a disposizione! Io e mio marito bisticciamo per trovare la coordinazione delle due pagaie. Alla fine, con calma e pazienza, troviamo il giusto ritmo che ci porterà all’ombra del faraglione più vicino. Il sole, non più tanto alto, riflette i suoi raggi caldi sull’acqua; le impercettibili onde mi cullano; le barche azzurre e arancioni in lontananza, di quelle che finora avevo visto solo nelle foto della Thailandia su Instagram, mi regalano la sensazione di essere entrata in un mondo che prima avevo solo immaginato. Mi rilasso e respiro a pieni polmoni il profumo del mare. Ogni tanto un altro kayak ci taglia la strada in velocità, e mi fa tornare alla realtà.

Quando risaliamo sulla piattaforma, mi imbatto in una macchia coloratissima di canoe arcobaleno. Sullo sfondo, le piccole isole: quelle davanti sono più nitide e chiare, quelle dietro sembrano più piccole, e man mano che si allontanano, sempre più scure e appannate dalla foschia marina.

La seconda escursione prevede la visita all’isola di Ti Toc, un ufficiale russo a cui questo posto è stato dedicato. Una dozzina di minuti e qualche centinaia di scalini dopo, siamo sulla cima dell’isola ad ammirare increduli il tramonto sull’intera baia. Rimarrei qui per sempre. Ed effettivamente, aspettiamo che la gran parte delle persone comincino a scendere, fino a goderci quel paradiso quasi da soli, mio marito e io. Aspettiamo fino a che la palla rossa, in pochissimi secondi, scompare completamente, fagocitata dall’orizzonte.

Torniamo sulla nostra nave per la sera, ma in realtà la giornata non è ancora giunta al termine. Prima di gustare un romantico aperitivo al buio sul ponte della barca, gli ospiti sono invitati al corso di cucina a cielo aperto. Stasera: involtini primavera! Immortalo mio marito nelle vesti di chef orientale, e lo porto con me a sorseggiare un dolcissimo mojito mentre guardiamo il mare di notte.

Dopo cena, voglio andare a godermi il nostro balcone, così mi armo di libro e mi metto comoda sul lettino all’aperto. Il senso di tranquillità che provo in questo momento, e il vocìo degli altri passeggeri al piano superiore, mi conciliano il sonno tanto da farmi addormentare lì, sotto le stelle, in mezzo al mare, lontano dalla vita reale.

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Il giorno successivo si apre con un’altra uscita: stavolta andremo a vedere la grotta Hang Sung Sot. Umidità e suolo scivoloso fanno da padroni, ma è un fastidio ampiamente ripagato dal paesaggio che ci troviamo davanti. Un paesaggio lunare, quasi fantascientifico. Cupole, cave, corridoi, là dove stalattiti e stalagmiti si incontrano. Il calcare in alcuni punti ha formato delle grezze sculture nella roccia, che ricordano ora un leone, ora un elefante, ora un cuore, o due persone che si baciano. A ogni passo, a ogni spazio che attraverso, devo trattenere, per non sembrare pazza tra la gente, un’esclamazione di stupore e meraviglia. Il nome del luogo in italiano è “grotta della sorpresa”, e, con vera sorpresa, ha superato ogni mia aspettativa.

La baia di HaLong era una delle immagini che mi aveva portato a scegliere il Vietnam come meta per questo viaggio, ed effettivamente, tra panorami mozzafiato e sensazioni tra le più positive, questo posto mi ha fatta sentire perfettamente in pace con la natura e con me stessa. Insomma, Baia di HaLong promossa a pieni voti!

 

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Laos – Vientiane

Voglio confessarlo: il primo impatto con l’Indocina non è stato dei migliori.

Arrivo a Vientiane, la capitale, dopo due scali e innumerevoli ore di volo. In Italia sarebbero le 6 del mattino, in Laos sono le 11. L’auto viene a prenderci all’aeroporto e, senza passare per l’hotel, iniziamo subito il tour. Io indosso un leggings una t-shirt un maglioncino legato in vita e scarpe da ginnastica, e comincio a sudare appena tocco il suolo laotiano: un caldo infernale e un’umidità soffocante, da sommare a una stanchezza disumana.

Ma tutto cambia quando la guida, un uomo gentilissimo e sorridente, ci racconta spezzoni della sua vita: ora è sposato e ha un figlio, che ha chiamato pomodoro perché quando è nato era tutto rosso in viso, ma anni fa era un monaco buddhista. Ne parla come fosse stato il periodo più bello della sua vita, e infatti ci confessa che il suo cammino da monaco, interrotto per necessità economiche della sua famiglia, riprenderà quando il suo bambino sarà diventato più grande, e la moglie lo appoggerà in questa sua coraggiosa scelta.

Più lo ascolto, più la vita di quest’uomo mi affascina.

A Vientiane visitiamo monasteri e luoghi sacri: ogni volta che entriamo in uno di essi, togliamo le scarpe, e ogni volta, al cospetto di Buddha, troviamo un tappeto sul quale non si può sostare in piedi. I buddhisti laotiani, prima di pregare, si inginocchiano, e si inchinano toccando il suolo per tre volte.

Nel cuore della città, visitiamo il Vat Si Saket: fotografo monumenti in un inconfondibile stile orientale, bianchissimi. O coloratissimi. Passiamo davanti all’abitazione dei monaci, e non riesco a smettere di guardarla: vedo ciabatte fuori dalle porte e il bucato steso è tutto arancione. Voglio vedere i monaci. Uno, almeno uno! Si può sperare che qualcosa accada e nello stesso momento averne timore? Beh, ragazzi, io l’emozione che ho provato quando ho visto il primo monaco non la so spiegare…e se ci penso, ho ancora il batticuore!

Il chiostro ospita più di settemila statue di Buddha, di ogni dimensione, in ogni posizione, di ogni materiale. Subito mi dà l’idea di essere un posto d’altri tempi, sbiadito. E infatti è il tempio più antico della città che si sia conservato fino a oggi.

Attraversiamo la strada, ed entriamo nel cortile dell’Ho Phra Kaeo: una lunga strada lastricata. Alla fine, un edificio dalla forma triangolare, rosso e dorato, con decorazioni indescrivibili. Mentre sento gocce di sudore su parti del corpo che non pensavo potessero sudare, raggiungiamo il porticato dell’edificio. Ci corrono incontro decine di bambini in una elegantissima divisa e foulard al collo: dev’essere una scolaresca. Corrono, ridono, e ti contagiano con la loro allegria. I bambini laotiani hanno una fisionomia e una luce negli occhi che, giuro, non dimenticherò mai.

Lasciamo le scarpe e saliamo le scale: sotto al porticato, in un’ordinatissima fila, siedono altri Buddha in meditazione. Ed è subito pace interiore.

E’ quasi pomeriggio, e durante lo spostamento in macchina faccio fatica a tenere gli occhi aperti: sono stanchissima!

Raggiungiamo il That Luang: un tempio talmente grande che l’obiettivo della mia Canon lo contiene a fatica. E’ enorme, e imponente, e tutto dorato! Si può vedere da fuori, ma dentro no. Loro lo chiamano Stupa, e all’interno è custodita una reliquia di Buddha risalente al III secolo a.C. Possono entrare solo i monaci, solo durante l’apertura straordinaria per il capodanno laotiano, in aprile. E’ un simbolo, anzi, il simbolo del Laos. All’esterno, a pochi passi dallo Stupa, alziamo la testa, apriamo la bocca e sgraniamo gli occhi alla vista di un gigantesco Buddha: enorme, dorato, e sdraiato. E’ il celeberrimo Buddha reclinato, ed è veramente maestoso.

Ultima fermata di oggi: la Porta della Vittoria. Ora sì che sembra di essere in città! Davanti alla porta, una grande fontana, che però ora è spenta. La porta somiglia all’Arco di Trionfo, ma più piccolo, e in stile orientale. Saliamo: all’interno, ogni piano è un negozio di souvenir e artigianato locale. In cima, finestre con inferriate che disegnano un Buddha, su quattro lati. La città vista dall’alto (ma non altissimo) ha il suo fascino: l’architettura degli edifici e il verde delle piante e delle palme che sorgono in mezzo ad essi, convivono in un’armonia veramente perfetta.

Il nostro hotel si trova un po’ fuori dal centro della città, ma tanto, anche se mi piacerebbe moltissimo uscire ancora e fare una passeggiata per scovare gli angoli più nascosti di questo posto, ci lasciamo andare a un lungo riposo dopo una doccia ristoratrice. L’accogliente terrazzo della nostra camera affaccia sul Mekong, esattamente nel punto in cui il sole svanisce per lasciare posto alla sera. Anche se non usciamo dall’albergo, sono soddisfatta, perché riesco a godermi con gusto uno dei tramonti più belli e rossi visti in vita mia. Non riesco a distogliere lo sguardo dal cielo, dal paesaggio, dalla meraviglia che mi trovo davanti. Li fotografo una, dieci, cento volte. Voglio immortalare ogni momento, ogni sfumatura.

Il secondo giorno si apre con una colazione condivisa con una squadra dell’esercito in partenza. Noto una ragazza, accanto a un militare in mimetica, che piange lacrime a singhiozzi. Lei guarderà il suo compagno partire, e rimarrà qui, impotente.

Abbiamo il volo per Luang Prabang alle 11:30 (sì, siamo arrivati appena da 24 ore e già ripartiamo), ma prima, a sorpresa, la visita a un altro tempio. Qui, tutto è giallo come la senape, e rosso come l’Oriente. Entriamo, e, tra colonne dorate, ci troviamo davanti una famiglia che si sta facendo benedire da un monaco, per mettere fine alla cattiva sorte che l’ha colpita negli ultimi tempi. Tengono in mano un filo, tutti lo stesso. Un rito, una preghiera, un canto. Poco più in là, in un angolo, un gong più alto di me (giuro, non ci vuole molto!), coloratissimo, pronto a ricevere colpi. La guida ci fa vedere come si suona, e ci spinge a provare: tre colpi, lenti. Poi le mani sul centro del gong, ancora vibrante, e poi sulla testa. E che la fortuna ci accompagni!

 

 

Autore:Schermata 2019-04-16 alle 10.11.33

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