Alzi la mano chi conosce la storia recente della Cambogia!
Lo ammetto: io prima d’ora non me ne ero interessata. Quello che so, lo scopro dai racconti della nostra guida: un uomo paffutello che suda sotto lo stesso caldo umido che ci accompagna ormai da settimane, e che ridacchia a ogni battuta che lui stesso pronuncia.
Negli anni ’70 viene costituito un partito rurale che prende il nome di Khmer Rossi, capitanato da un uomo che passa alla storia con lo pseudonimo di Pol Pot. La strategia di questo gruppo consiste nella “Purificazione della Cambogia”: tutti gli uomini e le donne che esercitano una professione intellettuale vengono fatti fuori, e così i loro figli, anche bambini. Chi porta gli occhiali (segno di acculturamento), chi non presenta calli alle mani, viene massacrato, per lasciare spazio ai soli contadini e lavoratori manuali. Uniche figure realmente utili secondo la società che si va creando sotto questo sanguinario regime politico.
Risultato: il genocidio porta alla riduzione di un quarto della popolazione cambogiana, con più di un milione e mezzo di esecuzioni.
Gli Khmer Rossi sono sconfitti alla fine degli anni ’70, con una resa totale avvenuta solamente negli anni ’90, quando il regime politico diventa la monarchia che è ancora oggi.
Dopo aver ammirato le collezioni d’arte khmer all’interno del Museo Nazionale, la mia attenzione viene attirata dal complesso del Palazzo Reale, che ospita ben nove edifici, e che si estende sontuosissimo davanti ai miei occhi. Saliamo le scale per entrare nella sala del trono, ma scopriamo che è in corso l’organizzazione di un evento per la sera stessa, perciò possiamo solamente dare una sbirciata dalle finestre. Non saprei descrivere quello che ho provato alla vista degli interni se non dicendo che ho fatto difficoltà a staccare gli occhi da ciò che stavo guardando: un’opera d’arte dai pavimenti, ai tappeti, alle pareti e gli arredamenti.
Entriamo nella Pagoda d’Argento, che prende il nome dal pavimento rivestito da mattonelle d’argento, comunque coperte dai tappeti che le preservano. All’interno, una serie innumerevole di statue di Buddha: oro, bronzo, smeraldo, e persino una rivestita di centinaia di diamanti. A volte mi stupisco di quanto le persone di questi popoli possano vivere con poco, a un passo da tesori inestimabili come questo.
Passeggiamo nel cortile del complesso, mentre la guida ci invita a guardare con attenzione l’esterno degli edifici, che quasi sempre riporta quattro colori ricorrenti: rosso, giallo, verde, blu. Rispettivamente: buddhismo, la religione principale; induismo, la seconda religione, e quella più diffusa anticamente in Cambogia; natura, di cui il Paese è ricco; regalità, tanto è vero che il blu è inteso proprio come colore del re, presente in ogni cosa che lo riguardi.
Parlando di colori, la conversazione passa a un altro argomento: il matrimonio khmer tradizionale viene celebrato secondo quattro riti diversi, e dura una intera settimana, che vede il cambio di sette abiti, per i sette giorni di festeggiamenti, e la partecipazione di interi villaggi, per un totale di centinaia e centinaia di persone coinvolte e tonnellate di cibo consumato.
Ancora piacevolmente sconvolta e affascinata per i racconti del rito khmer, mi dirigo verso gli stupa dei membri della famiglia reale: altissimi, bianchissimi, e intagliati dal fondo alla cima, fino all’altissimo puntale d’oro.
Lasciandoci alle spalle queste opere di bellezza e valore ineguagliabile, passiamo per una boutique di artigianato locale: certo, le materie prime sono sempre le medesime (seta, ceramica, argento) ma l’eleganza e la raffinatezza che si notano, finora erano mancate in questo viaggio.
Facciamo una sosta in albergo, dove la nostra camera di trova a un piano abbastanza elevato da scattare fotografie dall’alto. L’affaccio: una suggestiva abitazione privata, che non brilla certo per ricchezza, ma che mi incanta tanto da rimanere qualche minuto a guardare l’uomo che la abita, intento nelle sue attività quotidiane. Poco più in là, un mercato coperto da fittissime tende verdi, che viste da questa altezza fanno pensare a un lago tappezzato di foglie di ninfea.
Usciamo per una passeggiata sul lungofiume: ampio, aperto, luogo di ritrovo per le persone del posto, e di relax per me, che mi siedo volentieri sul muretto che separa la strada dal fiume, per godermi il panorama: il tramonto, che lascia dietro di sé un’atmosfera soffusa, puntinata di luci nelle finestre, nei negozi e sui motorini che sfrecciano; lo skyline su cui si stagliano diversi grattacieli, destinati ad aumentare, simbolo del progresso cui la Cambogia sta inesorabilmente tendendo.
Prima di rientrare per la cena, ci immergiamo nel mercato notturno non molto distante dall’hotel. Nonostante la guida ci abbia messi in guardia sulla possibilità di essere scippati, raccomandandosi di non portarsi dietro niente che attirasse l’attenzione, io tengo la macchina fotografica al collo, anche all’interno del mercato. Tutto procede tranquillo: facciamo un giro tra le bancarelle, senza in realtà acquistare nulla, e ci dirigiamo verso l’albergo.
La cena si svolge nel roof restaurant. Ora, all’aria aperta e con un panorama a 360 gradi ad aspettarmi, quasi non mi riesce di stare seduta e attendere la fine del pasto. La vista che mi trovo davanti, al di là della piscina dell’albergo, è un’armoniosa fusione tra gli edifici classici, dai tetti rossi, tra cui il Palazzo Reale, davanti, e il grigio degli altissimi e modernissimi grattacieli sullo sfondo, su cui addirittura brillano luci psichedeliche di pubblicità di chissà quale brand globale.
La Cambogia non è certamente solo questo. Ma atterrare su un suolo moderno e perfettamente integrato nel mondo contemporaneo, pur mantenendo vive le tradizioni locali, quale è quello di Phnom Penh, lascia di stucco.
Pronti per avventurarci nel cuore del Paese, ciò che vedremo domani è tutt’altra storia.
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