Non so quanto l’ho cercata! La chiave per comprendere questo popolo così enigmatico.
Prima di giungere a Saigon, facciamo tappa nella località di Cu Chi, poco lontano dalla città. Qui è stata allestita una mostra a cielo aperto sulla Guerra in Vietnam; è questa la foresta in cui i Viet Cong si nascondevano dagli americani: tra gli alberi e nella città sotterranea che costruirono con cura e sagace ingegno.
Un cartello ci illustra il sistema di cunicoli sotterranei: 250 chilometri di gallerie a due o, a volte, tre piani interrati. I corridoi sono interrotti da stanze vere e proprie, allestite a magazzini, dormitori, armerie, infermerie, posti di comando, e cucine con tanto di sistema di aerazione e fuoriuscita del fumo, invisibile dall’esterno; qua e là spazi allestiti con originalissime trappole, nel caso in cui gli americani fossero riusciti a entrare. Il tutto rimasto inviolato sotto i potenti bombardamenti sferrati dalle truppe americane negli anni.
A ogni nostro sospiro di stupore di fronte alla genialità di certe invenzioni, la risposta della nostra guida è “Dovevano scegliere tra la vita e la morte”. Come darle torto?
I vietnamiti hanno dovuto combattere questa guerra con l’astuzia, non avendo a disposizione mezzi evoluti come quelli dei loro nemici: disinnescavano bombe inesplose per riutilizzarne il meccanismo, costruivano trappole mortali che funzionavano da vere e proprie torture, combattevano da ogni parte con le armi a loro disposizione (uomini e donne, indistintamente).
Ecco cosa intendo quando dico che ho trovato la chiave di comprensione di questo popolo: le scarse condizioni igieniche in cui ancora oggi versano, la scortesia, l’ineducazione e l’abitudine a mangiare tutto ciò che si muove. Sono tutti retaggi delle condizioni in cui hanno vissuto pochi, pochissimi decenni fa. Sottoterra. A contatto con il terreno e con qualsiasi forma animale. Più arrabbiati e cattivi che mai per combattere contro i nemici. E vincerli.
I Paesi circostanti provano antipatia per i vietnamiti, ma in realtà quello che li muove è il timore. Timore, perché il popolo vietnamita ha sconfitto un nemico potente come l’America. Tutto da solo.
Ora: non sono sicura che un luogo come Cu Chi, allestito su misura per il turista, sia tanto gradevole per me. Non ho mai amato la spettacolarizzazione delle tragedie, e così il Vietnam ha trovato il modo di specularci. Ma è pur vero che questo luogo va visto. Un’esperienza del genere ti cambia la prospettiva e ti apre gli occhi.
E allora sì, dopo quasi una settimana in Vietnam, non sopporto più i clacson per la strada, il caos, le persone che non sanno tenersi le scarpe e che si toccano continuamente i piedi nudi e sporchi, che non accennano un sorriso neanche a pagarlo. Ma voglio smettere di giudicarle, queste persone. Voglio provare a comprenderle sulla base del loro recente passato. E allora chiudo gli occhi, tappo le orecchie, e smetto di respirare. Ma non vedo l’ora di essere fuori di qui.
Saigon, è tutta un’altra cosa. Nel centro, Saigon è una città contemporanea, occidentale, normale.
Andiamo a vedere la zona costruita dai colonizzatori francesi: la chiesa di Notre Dame con la statua della Madonna nella piazza antistante, e, vicinissimo, l’imponente ufficio postale progettato niente meno che da Gustave Eiffel. Sì, l’architetto che ha dato il nome alla celeberrima torre parigina. Proprio lui.
Ci fermiamo a prendere un tè. Mi rilasso. Ancora non so che tra pochissimo attraverserò un paradiso. Quando riprendiamo la passeggiata è buio. Ignoro la pioggia che cade imperterrita, dimentico il traffico cittadino, i motorini, l’inquinamento acustico e ambientale. Quella che stiamo percorrendo è la via delle librerie: una passeggiata pedonale ordinata e pulita. Davanti a me candide statue eleganti. Attorno a me libri. Libri e ancora libri. Il mio habitat!
Il silenzio che si respira fa dimenticare di essere in città, la carta stampata mi dona tranquillità e mi regala sensazioni positive. E i caffè tra una libreria e l’altra sono la ciliegina sulla torta. Un’oasi per me.
L’ultimo giro a piedi prima della cena è nel cuore della città: piazze enormi, grattacieli illuminati e colorati. Quasi sembra di stare a Times Square! E poi la via delle firme: gli Champs Elisée di Saigon. Fino a raggiungere Piazza Ho Chi Minh: grande, imponente, su cui primeggia, davanti alla Town Hall, una bellissima statua dell’uomo politico più amato in tutto il Vietnam, a cui è stata intitolata l’intera città. Sì, perché il secondo nome di Saigon è Ho Chi Minh City, e l’ammirazione per il personaggio storico si percepisce a ogni angolo.
La mattina successiva accade qualcosa che non mi aspetto. L’idea di Ho Chi Minh City come città completamente occidentalizzata mi crolla sulla testa come una pera che cade dall’albero. Siamo a China Town, dove visitiamo il Thien Hau, l’orientalissimo tempio dedicato alla Dama Celeste protettrice di mercanti e marinai, il più celebrato dalla comunità cantonese; e il mercato cinese: c’è qualcosa di paradossale nella fittissima rete di cubicoli stretti forse un metro quadrato di ammasso di cianfrusaglie in vendita, su cui i commercianti stanno seduti a gambe incrociate a fare i conti. Inutile dirlo: i pochi centrimetri di passaggio tra i cubicoli sono occupati dagli scatoloni di merce a terra e dalle altre persone che spintonano per camminare.
Attendiamo l’autista sotto il sole cocente, giusto il tempo di osservare la frenesia della gente che compra al mercato, i negozi allestiti di rosso e dragoni in attesa di chissà quale festività del calendario cinese, un poliziotto brizzolato in ciabatte e volto accigliato che sorveglia pigramente la strada con una sigaretta in mano.
L’auto arriva, ci fa salire a bordo e si fa strada tra i motorini per lasciare la città.
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