Riordino i pensieri, e cerco le parole per descriverla. Non voglio tralasciare nulla.
Hoi An: la Città delle Lanterne.
Lei non è solo questo: lei è un milione di cose, un milione di colori, un milione di sensazioni che restano sulla pelle.
Abbiamo la fortuna di avere l’hotel a pochi passi dal quartiere antico, perciò la nostra passeggiata comincia dall’inizio. Costeggiamo il fiume, che alle nostre spalle scorre beato, aperto, indisturbato; davanti a noi spacca in due la città.
Passiamo sotto un arco che ci dà il benvenuto, e siamo già dentro. Alla nostra destra il fiume, dal quale sorgono statue colorate di dragoni e altri animali fantastici; alla nostra sinistra il ponte giapponese: costruito per collegare il quartiere giapponese con quello cinese, cinque secoli fa, quando Hoi An giocava un ruolo importantissimo nel commercio asiatico. E’ tutto di legno, al chiuso, e ha un piccolo tempio per le preghiere all’interno. All’ingresso e all’uscita due statue: un cane e una scimmia, per ricordare anno di inizio e fine costruzione secondo il calendario cinese.
Percorriamo una parte della via principale nel cuore della città: le persone non sono tante a quest’ora, ma ognuna di esse ha qualcosa da fare. Una signora raccoglie erbe sulla riva del fiume, le botteghe sono già aperte, delle donne trasportano roba in bicicletta o sulle spalle, sul ponte una coppia di sposi vestiti di rosso si scambia effusioni davanti all’obiettivo.
Le lanterne sono dappertutto, e tingono di mille colori questa giornata dal cielo grigio e triste. Scendono dai balconi, abbondano nelle botteghe, giocano con i colori appese ai fili tra un palazzo e l’altro nella via. Mentre attraverso questo spettacolo unico nel suo genere, la mia attenzione finisce su un ragazzino, poco più che bambino, che lavora a capo chino su un banchetto minuscolo. La guida mi scopre incuriosita, e mi spinge ad avvicinarmi. Il ragazzino sta scolpendo una striscia d’argento che andrà a decorare una teiera.
Qui tutti si lasciano guardare mentre lavorano, si lasciano scattare fotografie.
Entro nel negozietto e mi trovo davanti un paradiso: dentro, altri due ragazzi stanno lavorando dei gioielli, tutto intorno manufatti in argento di ogni sorta.
Esco dalla bottega, ma solo perché non posso rimanerci tutto il giorno! E poi perché so che di fuori mi aspetta un altro spettacolo degno di essere guardato e vissuto.
Camminando (inutile dirlo, col naso all’insù), ci fermiamo a visitare la vecchia casa di un ricco commerciante di seta, adibita a museo. E’ piccola, di legno, con mobili originali finemente decorati, e molte cianfrusaglie di famiglia: la parte che preferisco è il cortiletto, con piante rampicanti lungo il muro e un pozzetto che lo trasforma in uno dei miei luoghi del cuore, di quelli in cui mi basterebbe una poltrona, un tè e un buon libro per estraniarmi dal resto del mondo.
Adoro passeggiare per le vie della città: molti sono i negozi di manifatture locali, alcuni hanno esposte tante di quelle lanterne che dall’alto arrivano fino a terra, lasciano giusto lo spazio per entrare: sono di seta, tinta unita o dipinte a mano, di forme diverse e di ogni dimensione. E poi le gallerie d’arte: quadri esposti, dipinti, stampe. Raffigurano persone con il classico cappello vietnamita, ragazze con l’abito bianco e lungo, divisa del liceo; lanterne luci colori, scene di vita quotidiana; sul fiume, in mezzo alla risaie. Ecco, se dovessi categorizzare Hoi An, sì, la metterei tra le opere d’arte.
Passiamo in una stradina stretta, resa più stretta ancora dai motorini parcheggiati, e dalle assi di legno di qualche lavoro in corso. Entriamo in un cancello: stiamo andando a visitare una fabbrica di seta!
Qui ognuno ha il proprio ruolo nella catena di lavoro: un signore seduto con una gamba sull’altra, senza scarpe, monta svogliatamente le strutture di legno delle lanterne abbozzando un sorriso; un paio di persone si occupano dell’allevamento di bachi da seta che si ammassano su un reticolo, un macchinario di legno tira i fili dai bachi immersi nell’acqua, e un altro avvolge il filo in bobine; infine arriva il telaio a mano per tessere le trame del tessuto, e la bottega delle stoffe già pronte dove si confezionano abiti su misura. In un’enorme area chiusa, un po’ più in là, si susseguono una quantità infinita di banchi su cui lavorano altrettante ragazze, che ricamano la seta con immagini talmente realistiche da sembrare fotografie. Diventeranno dei quadri dai prezzi esorbitanti.
Mi sono innamorata di questa città nelle condizioni più avverse: in un giorno uggioso, di quelli che ti fanno vedere il mondo con una lente grigia. Come un amore appena sbocciato tra due persone che si conoscono appena. Eppure, non lo sapevo, ma non avevo ancora visto niente.
Quando scende la sera, il fiume sembra nero come la notte, ma sulla sua superficie brillano centinaia di candele colorate. Prepariamo il cavalletto per scattare foto al buio, aguzziamo la vista, e…decine di barchette illuminate solo da una piccola lanterna ospitano donne, uomini, famiglie, che godendosi il panorama che hanno intorno, adagiano le candele sul pelo dell’acqua. Se non è una storia d’amore questa!
Abbiamo un’oretta di tempo per continuare la passeggiata prima di andare a cena. Mi affretto: torno al negozio di argenti, torno alla fabbrica di seta, voglio percorrere vie sconosciute, voglio setacciare il cuore della città, voglio perdermi qui!
Le mille…ma che dico? Le diecimila lanterne che accendono Hoi An tolgono il fiato, ti fanno sospirare, e ti fanno immaginare di vivere qui, come se tutto questo fosse casa tua, come se ogni ogni giorno potessi uscire di casa e sapere che fuori dalla porta ti aspetta lo spettacolo.
Il tempo non è stato clemente, e nel giro di pochissimo comincia a cadere una pioggia fortissima: i capelli si bagnano, le strade si allagano, ma loro rimangono lì, accese, colorate, imperterrite, a decorare quell’opera d’arte.
Penso che sono stata proprio sfortunata: proprio qui, proprio nel posto in cui non vedevo l’ora di essere, proprio nella tappa più importante per me di tutto il viaggio, una pioggia così, che rovina tutto. E allora la mia testa…no, la mia pancia! mi suggerisce che se il destino ha voluto che io questa città la vedessi con la pioggia, dovrei sforzarmi di trovare degli aspetti positivi. Inventarmene, se necessario.
Allora comincio a ballare sotto la pioggia, a non abbassare la testa, mi lascio bagnare i capelli, inzuppo i piedi nell’acqua.
Le lanterne! Se prima erano diecimila, ora si riflettono nelle pozzanghere, e sono diventate ventimila!
In più, il cattivo tempo ha fatto sì che la maggior parte delle persone si rintanassero al chiuso, perciò ora l’opera d’arte, doppia, è tutta per me.
Impazzisco di gioia e scatto fotografie all’impazzata.
Alle luci, ai riflessi, alle gocce. Al silenzio.
Giuro. La amo.
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