Vietnam – Hanoi

Quando arriviamo ad Hanoi è ormai sera. Dall’aeroporto al centro della città è un bel pezzo, e un’eternità il tempo per percorrerlo. Passiamo sotto agli archi triangolari del ponte giapponese, che sono illuminati e cambiano colore. Ben presto mi rendo conto che non è la distanza la causa dell’ora e mezza che ci impieghiamo per raggiungere l’hotel, ma il traffico. Centinaia di auto in coda affollano disordinatamente le corsie, che sono tre, o forse quattro. Non capisco, perché nessuno occupa il suo posto, tutti cercano di sovrastare gli altri. La città è frenetica, e, dopo essermi abituata alla pace e al rispetto delle regole in Laos, per me è uno schiaffo in faccia.

Visto che è fine settimana, dopo cena decidiamo di uscire a piedi per immergerci nella movida vietnamita. La città vanta alcuni laghi al suo interno, e noi ne abbiamo uno a 20 minuti di cammino dall’albergo. Mentre passeggiamo, ci è impossibile non notare la marea di motorini che sfrecciano per le strade.

Dobbiamo attraversare. Scendiamo dal marciapiede, sicuri della precedenza concessa dal semaforo verde, ma all’improvviso qualcosa di inaspettato. I motorini non si fermano neanche al semaforo rosso! Sfrecciano, ti schivano, ti tagliano la strada, suonano il clacson. Non vedo l’ora di essere al parco del lago, chiuso al traffico, dove ci saranno solo persone a piedi. Ma quando arriviamo, subito siamo investiti da migliaia di persone, che passano, ti spintonano, ti pestano i piedi, ti prendono a spallate per passare.

Ok, forse sono solo stanca, forse mi devo solo abituare a questa frenesia, forse ho solo bisogno di dormire e rimandare a domani i buoni propositi.

Siamo al lago, e, mentre mio marito esplora le funzioni della macchina fotografica, io mi siedo su uno sgabello minuscolo che individuo sulla riva. Sto lì appena qualche secondo, prima che una signora mi faccia alzare: sta vendendo dell’indecifrabile roba da mangiare, che prende da un contenitore di bambù, e io ho inadeguatamente occupato uno sgabello del suo raffinatissimo bar improvvisato sul pavimento.

Nonostante la mia pace interiore vacilli, penso che la vista mi piace, la passeggiata anche.

Qui, persone che non si conoscono si mettono in cerchio e giocano a tirarsi un volano con i piedi. Lungo la strada, moltissime postazioni di karaoke. Scopriamo che questo è il principale divertimento dei vietnamiti (la città è piena di gigantesche insegne di karaoke nei locali) perché la discoteca è vietata, così cantare è la loro alternativa.

La giornata successiva si apre con una passeggiata a piedi tra i vicoli della città. Alcuni sono talmente stretti e bui, da dover tenere le luci stradali accese. Passiamo in mezzo ad abitazioni fatiscenti, davanti a minuscoli bar, ingarbugliatissimi fili della corrente, motorini parcheggiati in ogni angolo. E poi mercati: bancarelle dappertutto. Vendono frutta, soprattutto, ma anche carne, pesce, insetti. Spesso sono solo contenitori posati direttamente e terra, e chi vende siede su uno di quegli sgabelli piccolissimi. I mercati mi piacciono: rendono tutto più colorato! Le persone che acquistano arrivano in motorino, fanno le loro richieste senza neanche scendere dalla sella, pagano, e ripartono. Il motorino non lo hanno nemmeno spento.

Nei vicoli, i balconi quasi si toccano, il bucato è steso sulla strada, il sole è coperto con dei teli, e gli avvisi pubblici sono scritti su lavagne tutte scrostate. E c’è sempre qualche signora con il cappello conico, il non la, che passa con un’asta sulla spalla a cui sono appesi due recipienti pieni di merce da vendere. E’ una delle immagini classiche del Vietnam, e mi piace da morire!

Arriviamo sulla via principale: dobbiamo camminare in tre. Per farlo, scendiamo dal marciapiede, in balia dei mezzi che sfrecciano. Sì, perché qui i marciapiedi contengono le radici degli alberi, gli scooter parcheggiati (mille!), e gli sgabelli dei bar, su cui siedono decine e decine di uomini. Le donne, a quest’ora, lavorano.

Sono elettrizzata: stiamo per entrare nel tempio della letteratura! La porta che dà accesso al giardino è bianca, e presenta delle scritte in caratteri cinesi. Il Vietnam è stato sotto il dominio della Cina per un migliaio di anni, e la cultura cinese si respira in ogni cosa. Nella fisionomia delle persone, nelle scritte su templi e pagode, nelle lanterne a ogni angolo della strada, nei simboli, nelle tradizioni. In realtà anche la lingua vietnamita utilizzava gli ideogrammi, prima. Poi i francesi, conquistata l’Indocina alla fine del 1800, trovando quelli orientali troppo difficili, hanno imposto i caratteri occidentali per la scrittura vietnamita, diversificando la pronuncia per lettere uguali con accenti e altri segni.

Il giardino ha un bel prato verde, alberi secolari dai tronchi intrecciati, frutti e fiori coloratissimi, un laghetto con fiori di loto e carpe che nuotano. Nel cortile c’è una scolaresca: tanti bambini con dei fogli in mano, interrogano i turisti. Stanno imparando l’inglese.

Passiamo un’altra porta. Sui gradini un monaco anziano, vestito di marrone, seduto in meditazione, con gli occhi quasi chiusi, si concentra come se attorno a sé nulla stesse accadendo.

All’interno del tempio, sul trono, c’è lui, il guru della filosofia orientale, colui che tutti conoscono e tutti studiano: Confucio. Porta le mani giunte una sull’altra. Le maniche larghe, che scendono morbide dai gomiti, e il cappello che porta in testa, gli conferiscono un’aria sacra. Davanti a lui, vasi, fiori, incenso, e mani di Buddha. La mano di Buddha è un frutto ornamentale, un agrume giallo sbiadito, che ha la forma di dita raccolte, e si utilizza come offerta nei templi. Accanto a Confucio, si trovano i suoi discepoli più dotati, coloro che hanno contribuito a diffondere la sua dottrina nel tempo.

Allora ci accorgiamo che non solo il Buddhismo, ma anche la filosofia, i precetti di buona vita, sono fondamentali, e sacri, per queste persone. Il Confucianesimo, diffuso in Vietnam attraverso il dominio cinese, è la filosofia morale che sta alla base dei rapporti familiari e, in senso più esteso, delle relazioni umane. Detta regole sociali, ed è paragonabile a una religione.

Inoltre, questo tempio è stato sede della prima Università vietnamita, frequentata da studenti di famiglie nobili.

Notiamo la presenza ricorrente di quattro animali, che ritroveremo spesso, e che hanno un significato ben preciso: il dragone simboleggia la forza e il potere, è raffigurato spesso con la bocca aperta e baffi sottilissimi; l’unicorno è la fortuna, e ha una fisionomia completamente diversa dall’unicorno occidentale: ha un muso tondo e la criniera, e un piccolo corno arrotondato sopra la testa; la fenice è il simbolo della bellezza e dell’eleganza femminili; la tartaruga è la longevità.

Tornando con i piedi per terra, passiamo dalla letteratura alla storia: il museo etnologico ci svela i moltissimi gruppi minori che vivono nelle zone del Vietnam, sulle montagne soprattutto. I loro costumi sono colorati, portano delle stoffe sulla testa, e tutti sembrano anziani. Scopriamo l’evoluzione della forma delle abitazioni, i segreti sulla costruzione di strumenti per la pesca, e sulla struttura del non la. L’etnologia e l’antropologia mi hanno sempre affascinata!

E’ il momento di passare, invece, dalla storia alla politica: ci avviciniamo a un edificio enorme tutto bianco e perfettamente squadrato, con davanti un’enorme piazza rettangolare, guardie a ogni angolo. E’ il mausoleo di Ho Chi Minh. All’interno dell’edificio non si può entrare; l’accesso è previsto per i giardini di un’abitazione in cui il presidente ha vissuto per un periodo della sua vita. Il giardino è bello vasto e molto gradevole, con numerosi esemplari vegetali e scoiattoli dalla coda rossa che bene si mimetizzano tra i rami degli alberi.

Alla domanda di mio marito, che chiede se in Vietnam gli scoiattoli si mangiano, la nostra guida risponde con un piuttosto inquietante “qui mangiamo tutto ciò che si muove”. Al momento l’affermazione ci spiazza, suscitando un pelo di ribrezzo. Capiremo più avanti, imparando a conoscere meglio questo Paese e la sua storia, le ragioni della sua coraggiosissima gente.

Camminiamo per un po’ lungo un viale quasi deserto che porta a un accesso negato, godendoci tutto il silenzio che sarà interrotto tra poco dal gruppo di rumorosissimi cinesi, che abbiamo davanti quando giriamo intorno all’abitazione di Ho Chi Minh: una modesta ed elegante palafitta arredata in legno, con oggetti dal gusto un po’ antico.

Non lontano dagli edifici dedicati all’uomo politico più apprezzato in Vietnam, sorge una piccola pagoda costruita su un unico pilastro, e che si trova circondata da un porticato tappezzato di vignette che raccontano azioni di vita quotidiana e relative conseguenze. Ci lasciamo attirare dalle scenette, e cerchiamo di imparare i precetti di retta vita che stanno alla base della società orientale, senza renderci conto del tempo che passa.

Torniamo a immergerci nel centro della città. Avevo visto qualche immagine di un binario della ferrovia nel bel mezzo del caos cittadino, prima di partire: stiamo andando proprio lì!

Appena si raggiunge la stradina su cui è posizionato il binario, si ha la sensazione di essere fuggiti dalla città: niente motorini, niente clacson, nessun venditore all’angolo della strada. La via è stretta, tanto da contenere il binario e forse un paio di metri ai lati. Tutto intorno: case! Sì, sono delle coloratissime abitazioni, e la gente ci vive. Alle 15:20 passa il treno, perciò decidiamo di aspettare i 20 minuti che mancano. Nel frattempo mi perdo a scattare fotografie: una panoramica, il particolare di un murale arcobaleno, la tabella degli orari dipinta sul muro. Una piattaforma con uno scalino su cui sedersi. Su di essa aleggia una scritta, in inglese. Dice che tutti possono ripararsi dal passaggio del treno sul quel gradino: persone di ogni taglia, ogni colore, ogni cultura, ogni religione. Sul pavimento, la scritta “adventure in out there”. Passeggio sul binario, e, come me, altre decine di persone. Si siedono, si mettono in posa, una foto di faccia, una da dietro, una più accattivante. Ritraggo una signora canuta, che cammina sul marciapiede, con un abito lungo verdone a fiori bianchi. Ha una fisionomia fantastica. E’ immersa nei suoi pensieri. Le faccio qualche fotografia, senza farmi vedere.

Mentre tutti siamo ancora affaccendati a scattare a destra e a manca, esce una ragazza dal bar (sì, c’è anche un bar della stazione!) e, gridando, annuncia l’arrivo del treno, ordinando di sgombrare il binario. In lontananza lo avvistiamo, è sempre più vicino. Per non so quanti interminabili secondi le orecchie fischiano, il vento spettina i capelli, il bucato sui piccoli balconi poco lontani dal suolo svolazza: un enorme treno rosso sta sfrecciando alla velocità della luce a un centimetro dal tuo naso!

D’un tratto, la quiete dopo la tempesta. Torna il silenzio. Per un attimo, il fiato resta sospeso, poi il sollievo sul volto di tutti. E il binario, vuoto per pochi attimi, ricomincia a riempirsi di gambe scoperte, zaini in spalla e macchine fotografiche curiose. Pericolo scampato, la vita riprende a scorrere. Assolutamente il mio posto preferito ad Hanoi!

La passeggiata riprende: altri vicoli, altri mille volti, altri colori, altre luci. Il quartiere vecchio è caratterizzato dalla suddivisione delle vie per mestiere: ogni isolato porta il nome della merce che viene lì commerciata, tutto in artigianato rigorosamente locale.

Il tempo di vedere una chiesa cattolica, molto simile a quella di Notre Dame a Parigi, prendere un caffè in una bottega locale, e in un attimo siamo sul Lago della Spada Restituita. Leggenda vuole che il re Le Loi fosse stato aiutato a liberarsi dal dominio cinese, da una spada emersa dall’acqua, e che una tartaruga enorme, una volta ottenuta la vittoria, fosse salita dalle acque per venire a riprenderla. Molto tempo dopo, durante il dominio francese, viene costruita una torre sul minuscolo isolotto al centro del lago, che ora porta il nome di Torre della Tartaruga, e che rappresenta un magnifico esempio di convivenza tra architettura occidentale e orientale.

Un minutino ad ammirare il lago in mezzo alla folla sul Ponte Rosso, e arriva il momento dello spettacolo delle marionette nell’acqua, al teatro proprio qui di fronte.

Molti visi occidentali attorno a me. Prendiamo posto. Le luci della ribalta si accendono illuminando i cantanti e i musicisti ai lati del palco, sommerso d’acqua. I canti sono in lingua vietnamita, incomprensibili, ma il ritmo è piacevole. Lo spettacolo è composto da scenette che hanno al centro personaggi diversi: uomini, donne, dragoni, pesci… Tutte marionette. E tutte sapientemente guidate da sotto l’acqua. L’idea è molto particolare, e veramente interessante. La durata, 45 minuti, troppo lunga. Non capendo i canti, le trame, i dialoghi, dopo un po’ ho rischiato l’assopimento.

Non importa: non potevamo lasciare Hanoi senza averlo visto.

 

Autore:Schermata 2019-04-16 alle 10.11.33

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