Voglio confessarlo: il primo impatto con l’Indocina non è stato dei migliori.
Arrivo a Vientiane, la capitale, dopo due scali e innumerevoli ore di volo. In Italia sarebbero le 6 del mattino, in Laos sono le 11. L’auto viene a prenderci all’aeroporto e, senza passare per l’hotel, iniziamo subito il tour. Io indosso un leggings una t-shirt un maglioncino legato in vita e scarpe da ginnastica, e comincio a sudare appena tocco il suolo laotiano: un caldo infernale e un’umidità soffocante, da sommare a una stanchezza disumana.
Ma tutto cambia quando la guida, un uomo gentilissimo e sorridente, ci racconta spezzoni della sua vita: ora è sposato e ha un figlio, che ha chiamato pomodoro perché quando è nato era tutto rosso in viso, ma anni fa era un monaco buddhista. Ne parla come fosse stato il periodo più bello della sua vita, e infatti ci confessa che il suo cammino da monaco, interrotto per necessità economiche della sua famiglia, riprenderà quando il suo bambino sarà diventato più grande, e la moglie lo appoggerà in questa sua coraggiosa scelta.
Più lo ascolto, più la vita di quest’uomo mi affascina.
A Vientiane visitiamo monasteri e luoghi sacri: ogni volta che entriamo in uno di essi, togliamo le scarpe, e ogni volta, al cospetto di Buddha, troviamo un tappeto sul quale non si può sostare in piedi. I buddhisti laotiani, prima di pregare, si inginocchiano, e si inchinano toccando il suolo per tre volte.
Nel cuore della città, visitiamo il Vat Si Saket: fotografo monumenti in un inconfondibile stile orientale, bianchissimi. O coloratissimi. Passiamo davanti all’abitazione dei monaci, e non riesco a smettere di guardarla: vedo ciabatte fuori dalle porte e il bucato steso è tutto arancione. Voglio vedere i monaci. Uno, almeno uno! Si può sperare che qualcosa accada e nello stesso momento averne timore? Beh, ragazzi, io l’emozione che ho provato quando ho visto il primo monaco non la so spiegare…e se ci penso, ho ancora il batticuore!
Il chiostro ospita più di settemila statue di Buddha, di ogni dimensione, in ogni posizione, di ogni materiale. Subito mi dà l’idea di essere un posto d’altri tempi, sbiadito. E infatti è il tempio più antico della città che si sia conservato fino a oggi.
Attraversiamo la strada, ed entriamo nel cortile dell’Ho Phra Kaeo: una lunga strada lastricata. Alla fine, un edificio dalla forma triangolare, rosso e dorato, con decorazioni indescrivibili. Mentre sento gocce di sudore su parti del corpo che non pensavo potessero sudare, raggiungiamo il porticato dell’edificio. Ci corrono incontro decine di bambini in una elegantissima divisa e foulard al collo: dev’essere una scolaresca. Corrono, ridono, e ti contagiano con la loro allegria. I bambini laotiani hanno una fisionomia e una luce negli occhi che, giuro, non dimenticherò mai.
Lasciamo le scarpe e saliamo le scale: sotto al porticato, in un’ordinatissima fila, siedono altri Buddha in meditazione. Ed è subito pace interiore.
E’ quasi pomeriggio, e durante lo spostamento in macchina faccio fatica a tenere gli occhi aperti: sono stanchissima!
Raggiungiamo il That Luang: un tempio talmente grande che l’obiettivo della mia Canon lo contiene a fatica. E’ enorme, e imponente, e tutto dorato! Si può vedere da fuori, ma dentro no. Loro lo chiamano Stupa, e all’interno è custodita una reliquia di Buddha risalente al III secolo a.C. Possono entrare solo i monaci, solo durante l’apertura straordinaria per il capodanno laotiano, in aprile. E’ un simbolo, anzi, il simbolo del Laos. All’esterno, a pochi passi dallo Stupa, alziamo la testa, apriamo la bocca e sgraniamo gli occhi alla vista di un gigantesco Buddha: enorme, dorato, e sdraiato. E’ il celeberrimo Buddha reclinato, ed è veramente maestoso.
Ultima fermata di oggi: la Porta della Vittoria. Ora sì che sembra di essere in città! Davanti alla porta, una grande fontana, che però ora è spenta. La porta somiglia all’Arco di Trionfo, ma più piccolo, e in stile orientale. Saliamo: all’interno, ogni piano è un negozio di souvenir e artigianato locale. In cima, finestre con inferriate che disegnano un Buddha, su quattro lati. La città vista dall’alto (ma non altissimo) ha il suo fascino: l’architettura degli edifici e il verde delle piante e delle palme che sorgono in mezzo ad essi, convivono in un’armonia veramente perfetta.
Il nostro hotel si trova un po’ fuori dal centro della città, ma tanto, anche se mi piacerebbe moltissimo uscire ancora e fare una passeggiata per scovare gli angoli più nascosti di questo posto, ci lasciamo andare a un lungo riposo dopo una doccia ristoratrice. L’accogliente terrazzo della nostra camera affaccia sul Mekong, esattamente nel punto in cui il sole svanisce per lasciare posto alla sera. Anche se non usciamo dall’albergo, sono soddisfatta, perché riesco a godermi con gusto uno dei tramonti più belli e rossi visti in vita mia. Non riesco a distogliere lo sguardo dal cielo, dal paesaggio, dalla meraviglia che mi trovo davanti. Li fotografo una, dieci, cento volte. Voglio immortalare ogni momento, ogni sfumatura.
Il secondo giorno si apre con una colazione condivisa con una squadra dell’esercito in partenza. Noto una ragazza, accanto a un militare in mimetica, che piange lacrime a singhiozzi. Lei guarderà il suo compagno partire, e rimarrà qui, impotente.
Abbiamo il volo per Luang Prabang alle 11:30 (sì, siamo arrivati appena da 24 ore e già ripartiamo), ma prima, a sorpresa, la visita a un altro tempio. Qui, tutto è giallo come la senape, e rosso come l’Oriente. Entriamo, e, tra colonne dorate, ci troviamo davanti una famiglia che si sta facendo benedire da un monaco, per mettere fine alla cattiva sorte che l’ha colpita negli ultimi tempi. Tengono in mano un filo, tutti lo stesso. Un rito, una preghiera, un canto. Poco più in là, in un angolo, un gong più alto di me (giuro, non ci vuole molto!), coloratissimo, pronto a ricevere colpi. La guida ci fa vedere come si suona, e ci spinge a provare: tre colpi, lenti. Poi le mani sul centro del gong, ancora vibrante, e poi sulla testa. E che la fortuna ci accompagni!
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